Si avverte nell’autrice una grande passione, che è quella riconoscibile da tutti gli sradicati dalla propria terra, destinati a riviverla, oltre che nei ricordi, propri e degli altri, i genitori, i nonni, nel mito delle leggende, della storia, e nelle pieghe dei sentimenti più profondi, compreso il dolore, forse il motore più forte.
Tre anni di viaggi e di ricerche, finanziati grazie al Creative Scotland e alla Society of Authors della Scozia, hanno permesso alla scrittrice e poetessa di origine bulgara Kapka Kassabova di scrivere uno tra i più bei libri di viaggio nei Balcani degli ultimi anni. Parliamo di “Confine – Viaggio al termine dell’Europa”, edito dalla EDT, la casa editrice specializzata nel genere e nelle guide di viaggio. Ma qui siamo anche nel campo della letteratura.
Si avverte nell’autrice una grande passione, che è quella riconoscibile da tutti gli sradicati dalla propria terra, destinati a riviverla, oltre che nei ricordi, propri e degli altri, i genitori, i nonni, nel mito delle leggende, della storia, e nelle pieghe dei sentimenti più profondi, compreso il dolore, forse il motore più forte. Kapka Kassabova ha una storia personale che attraversa le sue pagine: nata a Sofia nel 1973 è emigrata con i genitori in Nuova Zelanda alla caduta del comunismo nel 1992, per poi trasferirsi in Scozia dove si è sistemata. La sua lingua letteraria è l’inglese ormai, nella quale ha scritto questo “Confine” (la traduzione è di Anna Lovisolo). Ma l’anima porta i segni delle sue origini ed emerge con forza nelle pagine di questo viaggio che ha avuto una meta originaria, nel cuore di una regione nella quale si incontrano – e talvolta si scontrano – tre popoli diversi, ma la cui terra è unica, solamente divisa da confini che più volte nella storia sono cambiati, provocando di conseguenza il cambio di nome delle stesse città, a seconda dello Stato che in quel momento fosse l’occupante. Parliamo della Tracia, divisa tra Bulgaria, Turchia e Grecia, terra dove Asia ed Europa s’incontrano, terra di passaggi, oggi di migranti con i suoi campi profughi, i suoi traffici, spesso illeciti, i suoi popoli autoctoni, come i Pomacchi, bulgari di religione musulmana, o come i turchi che vivevano da sempre in Bulgaria, perseguitati perché invisi o non addomesticabili dal potere del momento per ragioni di identità etnica, e i suoi straordinari personaggi di frontiera.
Il libro della Kassabova parte dal massiccio montuoso della Strandža, una superficie di 10 mila km quadrati che si divide in particolare tra la Bulgaria e la Turchia, che ha anche la cima più alta, il Mahya Daği in Turchia, di 1031 metri, ricca di boschi, con una vegetazione e una fauna che conta numerose specie di piante e di animali (solo di rettili ce ne sono una ventina), con diverse zone diventate parchi sotto la tutela dell’Onu, e che discende da una parte verso il mar Nero e dall’altra verso l’Egeo. Purtroppo, la parte turca, come vedremo quando la scrittrice arriverà in quella regione, è ormai preda di uno sfruttamento che porta alla più cieca cementificazione.
Tutta la prima parte del libro è un viaggio, in fondo, anche per il lettore stesso, grazie alla forza rappresentativa e affabulatoria dell’autrice che ti trascina con sé in questi posti, tra questa gente, facendo rivivere, attraverso il suo racconto, un’esperienza di forte immedesimazione. Sia per l’oggi, per i mesi che l’autrice ha vissuto su queste montagne, in villaggi sperduti e semidisabitati, a due passi dal confine, sia per lo ieri, tragico, che basterebbe da solo a qualificare i regimi comunisti come entità di provata disumanità per le sofferenze che hanno causato, i morti ammazzati che hanno procurato, favorendo nell’uomo l’emersione degli aspetti peggiori a cui questi può tendere se messo nelle condizioni di farlo.
La Strandža, ai tempi dell’alleanza dei Paesi del Patto di Varsavia sotto la cappa della dittatura sovietica, non era solo l’ultimo confine d’Europa. Era anche l’ultimo del mondo comunista. E tra le persone che vivevano in quel mondo si era sparsa la voce che il confine con la Grecia e la Turchia che passava tra le cime e le valli, i boschi, di quella zona pressoché disabitata, fosse il meno controllato, il meno difficile dal quale uscire dall’opprimente vita dei regimi dell’Est. Ed ecco, tutti questi fingersi turisti per tentare quel disperato passaggio liberatorio. Ma c’erano diversi trucchi per fregarli: il primo erano le mappe, in particolare tedesco-orientali, che segnavano falsi confini, così da cogliere nel sacco i poveretti; il secondo erano il filo spinato, una prima fila ingannatrice che tu, una volta superata, credevi ormai di essere in salvo e poi invece, ti trovavi davanti a un altro ostacolo che rappresentava la vera e propria trappola, per cui finivi con un colpo di fucile alla nuca. Non bastava. A essere ingannata era la stessa gente che viveva sul confine, che avevano l’obbligo di denunciare se vedevano movimenti sospetti. La Kassapova racconta di quel pastore di confine che vide una coppia di cecoslovacchi in fuga. I due erano arrivati fin lì affamati e, vedendo il pastore apparentemente distratto, gli rubarono il rancio che lui si era portato dietro. Il pastore li aveva visti, ma era indeciso sul da farsi: in un primo momento pensò di chiudere gli occhi e di lasciarli andare, poi gli sorse il dubbio che potesse trattarsi di un trucco, una prova della polizia per vedere la sua fedeltà. Così li denunciò. E i due furono uccisi. Poco tempo dopo il pastore, dilaniato dai sensi di colpa, morì di cancro.
La Kassapova fa il numero di 415 persone uccise e sepolte “in fosse anonime dagli stessi soldati che li avevano uccisi. Erano tedeschi, polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, ceceni e altri cittadini del blocco sovietico, di solito giovani innamorati, viaggiatori solitari, coppie di amici”. Ma la gran parte di morti ammazzati, fuori da questo conto, erano, naturalmente, bulgari “a centinaia, talvolta donne e bambini”.
Sulle nefandezze dei crimini di regime, che in questa regione hanno visto le pagine più nere, non mancano ovviamente i periodi altrettanto bui dell’occupazione nazista e delle complicità del regime monarchico precedente a quello comunista che ha decimato la popolazione di origine ebrea, deportata nei campi di sterminio, e della quale ormai restano i discendenti dei pochissimi sopravvissuti.
Ma il confine non si nutre solo di questi aspetti dolorosi, che, con i suoi spostamenti di confini, la compresenza autoctona di diverse entità etniche, ricordano le vicissitudini dell’Istria, con un ugual numero di esuli in tempo di pace (300 mila), ci sono anche altri fenomeni, come quello della grande energia che questa terra irradia, tanto che chi ci va una volta è destinato a tornarci. “La montagna ti ha lasciato entrare, adesso non vuole farti uscire”. Come un incantesimo. Ed ecco gli aspetti magici, i rituali, le maghe, i posseduti, come quelli che praticano il “nestinarstvo”, cioè il ballare a piedi nudi sulla brace. Divertente, ed anche significativa, la storia della veggente, la cui potenza era tale da essere venerata come una santa. Inutilmente, il regime comunista, propagatore di un’ideologia materialista, tentò di soffocarla, ma l’ostilità della gente era tale che finì con l’acquisirla, dando alla veggente uno stipendio, e una macchina con autista, anche se poi la donna perse il contatto con il popolo e fece la veggente solo per gli oligarchi di partito.
Ma se la realtà della Strandža bulgara prende gran parte del racconto, non mancano le profonde, lunghe e significative incursioni nelle parti turche, della vicina Edirne, già Adrianopoli e in bulgaro Odrin, così come in quelle greche, fino a Drama, con capitoli dai quali emerge fortissimo il coraggio di questa bella donna che non ha esitato a viaggiare e vivere da sola in un mondo maschilista, spesso corrotto, non di rado pericoloso, ma anche, più in generale, ospitale, generoso, ricco di quella umanità che trae linfa e senso della propria esistenza dal contatto strettissimo con la natura, con le tradizioni ataviche, e l’orgoglio famigliare, come quello dell’antico faro di Beğendik sul mar Nero, che da un secolo fa luce grazie a un’unica famiglia di pomacchi che si tramanda l’impegno di tenerlo acceso a dispetto dell’antiquata tecnologia del loro avo costruttore.
Diego Zandel
Kapka Kassabova, Confine – Viaggio al termine dell’Europa, EDT, pag. 405, €25,00