“Abbiamo davanti a noi una opportunità incredibile” ha detto il Ministro Dario Franceschini in questi giorni “E’ la prima volta da 30 anni che si può spendere. Dobbiamo saperne approfittare”.
Un jackpot, ha commentato qualche parlamentare particolarmente brillante e creativo.
Proprio nell’euforia che ha caratterizzato i commenti al via libera del Recovery Plan, si annida, in realtà il rischio-pericolo, di una nuova, e sarebbe l’ennesima, illusione per gli italiani.
Arriveranno fondi europei (sia chiaro, non subito ma nel prossimo quadriennio 2021–2024) di una entità mai vista, ma a certe condizioni.
“Incassata” tale buona notizia e fatti i doverosi complimenti al governo ma soprattutto al nostro commissario europeo Paolo Gentiloni che ha svolto un lavoro paziente e determinato dietro alle quinte per raggiungere questo risultato miracoloso, non dobbiamo sottovalutare i rischi che ci sono e che bisogna considerare con grande attenzione e lucida serietà.
Provo ad elencarli:
1. Il Recovery Plan dovrà ancora essere ratificato dal Consiglio Europeo del 19 giugno prossimo dove ci si aspetta una dura opposizione dei Frugal Four più altri paesi membri, come l’Ungheria, che si stanno iscrivendo al partito del No.
2. Le risorse del Recovery Plan non saranno distribuite in maniera incondizionata. Per avere accesso alla propria quota, i governi dovranno presentare un “Piano nazionale per la ripresa e la resilienza” nel quale indicheranno le riforme e gli investimenti che intendono finanziare. Se verranno giudicati in linea con le raccomandazioni della Commissione e con le priorità UE, allora scatterà l’erogazione.
In particolare vale la pena leggere il contenuto degli artt. 17.4 (a) e 19.3 del Regolamento allegato al Recovery Plan, che la Commissione, concederà i fondi “solo quando i paesi avranno presentato dei piani dettagliati su come investire quei fondi e preso misure per mettersi in grado di spenderli con efficacia” ; in altri termini, la Commissione si tiene in mano “l’ultima parola”: il coltello dalla parte del manico per la decisione finale sull’erogazione.
Proprio per questo l’erogazione dei fondi non avverrà immediatamente nei prossimi mesi proprio nell’ottica di non perdere il controllo su come il denaro sarà speso dal singolo stato membro. Riservandosi quindi, la Commissione, di incalzare i singoli governi ad affrontare le riforme necessarie all’esecuzione del piano di investimenti.
3. L’Italia si potrebbe dunque trovare inondata da un fiume di denaro da spendere per certe finalità. Dovrà quindi, all’interno delle generiche Guide Lines scritte dalla Commissione (aumentare la spesa per investimenti pubblici, con particolare riferimento a quelli “verdi”; promuovere la digitalizzazione dell’economia; investire nella ricerca e nell’innovazione; migliorare l’efficienza e l’efficacia della pubblica amministrazione e del sistema giudiziario), individuando progetti finanziabili auspicabilmente non per la pura manutenzione dell’esistente, ma per dar vita finalmente a quel cambio di paradigma che imposti la grande riforma della macchina pubblica.
Il rischio e la sfida sono proprio quelli di dimostrare di essere capaci a “scrivere” progetti che servano a far ripartire il Paese nei suoi gangli più arrugginiti e burocratizzati.
Soltanto se l’Italia riuscirà a presentare piani dettagliati, credibili e operativi sulla transizione ecologica o sul digitale, potrà ottenere i fondi del Recovery Plan. “Presentare a Bruxelles – scriveva Federico Fubini sul Corriere della Sera – un piano solido a luglio, può accelerare gli esborsi da gennaio; attendere l’autunno e mandare progetti vaghi può far slittare i versamenti tra non meno di un anno”.
Per l’Italia, concludeva Fubini, “il modo migliore per far votare contro al Recovery Plan è mostrare al resto dell’Europa che il governo pensa di aver vinto un jackpot. Non di dover preparare un piano serio ed efficace”.
4. Una tale ricchezza “potenziale” può scatenare, come sta già succedendo, gli appetiti delle associazioni malavitose, ormai organizzate professionalmente per ottimizzare i processi di aggiudicazione dei fondi pubblici stanziati.
Questo è un altro rischio che richiede attenzione, vigilanza, semplificazione dei processi (come ha giustamente suggerito l’ex ministro Paola Severino) efficacia delle pene e delle sanzioni comminate agli approfittatori.
5. L’ultimo rischio: sbagliare la lista delle priorità!
Replicare una erogazione a pioggia, spalmata su molti dei comparti colpiti dalla crisi post-Coronavirus.
Uno stillicidio che vanificherebbe la massa critica finanziaria a disposizione.
L’ex Commissario europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici, è stato molto preciso in merito: “Non dobbiamo considerare questo piano come un incentivo all’irresponsabilità. Dobbiamo garantire la qualità della nostra spesa pubblica e, soprattutto, che essa sia indirizzata verso le esigenze prioritarie delle nostre economie, a partire dagli investimenti produttivi. I finanziamenti pubblici non devono distrarci dalle progressive riforme economiche e sociali di cui abbiamo bisogno, ma fornire i mezzi per realizzarle”.
Sante parole che ci permettono di sottolineare una priorità assoluta da porsi come obiettivo primario di questa riforma.
Favorire un nuovo, grande patto sociale tra le generazioni che riduca le disuguaglianze, investa “soldi veri” nel capitale umano e quindi nella scuola, partorisca una nuova formula di definizione giuridica ed economica dei cosiddetti Beni Comuni, quei beni sui quali si potrà rifondare un Paese più giusto, più libero, più uguale, basato su meritocrazia e opportunità per tutti con una coscienza civica che tuteli i diritti ma evidenzi anche i doveri di ciascuno di noi.
Dopo aver focalizzato i rischi e i pericoli connessi alla grande opportunità offerta dal Recovery Plan, provo ad individuare alcune priorità per dar vita davvero ad una spesa pubblica di qualità.
A tal fine, bisogna:
a) Ridare centralità alle idee, al pensiero strategico a medio-lungo periodo, costruendo dei team di lavoro che sappiano scrivere i progetti con un lessico adeguato alle richieste di Bruxelles. Sembra una banalità, ma in realtà l’Italia, fino ad oggi, non è riuscita a spendere tutti i soldi che l’Unione Europea le aveva assegnato proprio per la sua incapacità di individuare e scrivere dei progetti coerenti con i piani di investimento pluriennali di Bruxelles.
b) Occuparsi subito, prima di ogni altra cosa, del tema della risoluzione delle ormai insopportabili disuguaglianze esistenti. In questi giorni il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nella sua relazione annuale, ha confermato la tragicità del momento. La metà delle famiglie italiane ha subito un calo del reddito a causa della crisi prima sanitaria e poi conseguentemente economica. Circa i 2/3 dei nuclei famigliari con almeno un componente che prima dello scoppio della crisi risultava occupato, hanno registrato episodi di riduzione dell’attività lavorativa. La quota supera l’80% quando il capo famiglia è un lavoratore autonomo o un dipendente a tempo determinato.
Una buona fonte di riferimento per capire come affrontare questo nodo essenziale del nostro futuro a breve, evitando il moltiplicarsi delle manifestazioni di piazza, potrebbe essere costituita dal volume appena pubblicato da Il Mulino con il titolo “Un futuro più giusto: rabbia, conflitto e giustizia sociale”, a cura di Fabrizio Barca e Patrizia Luongo. L’ex Ministro della Coesione sociale sottolinea come “sia urgente imboccare la strada di un futuro più giusto, prendendo di petto il problema dei problemi: le gravi disuguaglianze e il senso di ingiustizia e impotenza che mortificano il paese”. Senza coesione sociale non si riparte: questo dobbiamo mettercelo bene in testa. La scuola e il sistema del welfare sono due aspetti fondamentali di questo dramma.
c) Non sbagliare la lista delle “cose da fare”, concentrando le risorse su infrastrutture, sburocratizzazione, impatto ambientale, giustizia e digitalizzazione (mettere in condizione, cioè, tutti i cittadini di poter usufruire della straordinaria innovazione della rivoluzione digitale: durante il lockdown molti italiani non hanno potuto fruirne proprio per mancanza delle reti o degli strumenti tecnologici).
Riccardo Rossotto