Sembra un romanzo ma è tutto vero. Una ragazza Americana, Elizabeth Holmes, figlia di due impiegati governativi ma discendente di uno dei migliori generali di campo di Napoleone e dal medico danese fondatore del Cincinnati General Hospital, a nove anni ad un parente che le chiede cosa vuol fare da grande risponde “la miliardaria”.
Il padre aveva cercato di inculcarle, fin da piccola, l’idea che nella vita, per lasciare un segno, bisogna darsi uno scopo, dedicarsi a un bene superiore, e fu così che coniugò, a modo suo, questo insegnamento con le sue aspirazioni. Dopo aver abbandonato il campus di Stanford al secondo anno di università, nel 2003, all’età di diciannove anni, fonda una piccola startup, la Theranos, per produrre e commercializzare degli analizzatori di sangue portatili che, grazie a una tecnologia estremamente innovativa, con una singola goccia di sangue avrebbero permesso di diagnosticare precocemente numerose malattie, salvando molte vite. Il tutto con costi davvero contenuti. Un’autentica rivoluzione nell’industria medica.
L’idea della giovane e carismatica donna, che nella Silicon Valley fu presto additata come «il prossimo Steve Jobs», cominciò ad attrarre numerosi investitori e potenziali acquirenti, trasformando in breve tempo la Theranos in una vera e propria macchina da soldi.
Nel 2014 la sua valutazione arrivò a toccare i 9 miliardi di dollari. C’era solo un piccolo problema, e di lì a poco si sarebbe scoperta l’amara verità: la tecnologia della Theranos non funzionava.
E gli investitori rimasti coinvolti non erano certo sprovveduti. Basta citare il Partner Fund Management, un hedge fund di San Francisco gestito da Christopher James e Brian Grossman, due navigati professionisti nell’ambito degli Investimenti con un patrimonio in gestione di oltre 4 miliardi di dollari e con un track record positivo (mediamente il fondo aveva reso il 10% annuo dal 2004). Importanti anche i nomi dei membri del Consiglio di Amministrazione. Il Presidente del Consiglio di Amministrazione era Donald L. Lucas, il venture capitalist, ossia l’investitore di capitale di rischio, che aveva preso sotto le sue ali il plurimiliardario imprenditore di software Larry Ellison, aiutandolo a quotare in borsa la Oracle Corporation nella seconda metà degli anni Ottanta. Lucas e Ellison avevano entrambi investito una parte del proprio denaro nella Theranos. Un altro membro del Consiglio di Amministrazione con un eccellente reputazione era Channing Robertson, il vice rettore della facoltà d’Ingegneria dell’Università di Stanford. Successivamente entrarono a far parte del Consiglio di Amministrazione l’ex segretario di Stato Henry Kissinger, l’ex segretario della Difesa William Perry, l’ex presidente della Commissione del Senato per le forze armate Sam Nunn e l’ex ammiraglio della marina Gary Roughead. Tutti uomini che con la loro straordinaria e impeccabile reputazione conferivano un marchio di legittimità alla Theranos.
Tra le tante difficoltà va menzionato il fatto che uno degli investitori della Theranos era Rupert Murdoch, il magnate dei media di origini australiane che controllava la News Corporation, la casa madre del Wall Street Journal. Murdoch infatti aveva investito 125 milioni di dollari nella società diventando di fatto il principale singolo investitore. La Holmes incontrò più volte Murdoch cercando di bloccare gli articoli sul Wall Street Journal ma senza successo. E alla fine, come spesso accade, il vaso di Pandora del “Sistema Silicon Valley”, della cui mentalità la Theranos è un caso estremo, è stato scoperchiato.
Un libro che fa riflettere sui meccanismi che si creano attorno ai mondi che spesso consideriamo come riferimento e che evidenzia l’importanza degli anticorpi che consentono di far emergere le situazioni potenzialmente dannose per il sistema. Constatare che in America gli anticorpi siano ancora presenti è un segno di speranza ed un invito a non dimenticare quanto sia importante avere una stampa economica libera ed indipendente.
Giovanni Maria Paviera