Esaurite e, per qualcuno, archiviate in fretta e furia le scorie e le polemiche sul 79º anniversario della Liberazione del nostro Paese, provo a mettere in fila alcuni pensieri, partoriti negli ultimi giorni densi di dichiarazioni roboanti, spesso retoriche, a volte contraddittorie. Chiarisco subito di essere rimasto piuttosto deluso dal contenuto del dibattito politico alla vigilia e nei giorni successivi della ricorrenza: ho avuto l’impressione che la nostra partitocrazia cogliesse l’occasione dell’anniversario del 25 aprile per riprendere vecchie polemiche, evitando così di entrare nel merito dei gravi e poco conosciuti problemi del nostro Paese, con particolare riferimento alle, per ora, inesistenti coperture della legge finanziaria.
Detto ciò, proverò a sviluppare alcune riflessioni su come, noi italiani, non siamo ancora riusciti, ormai a ottant’anni da quei giorni del 1945, a vivere e condividere la felicità per la commemorazione sia della fine della guerra sia della riconquista della Libertà, scritta volutamente con la L maiuscola, dal nazifascismo. Non sto parlando di costruire una memoria necessariamente condivisa, sia chiaro. Non credo che questo debba rappresentare un obiettivo primario. Ognuno dei protagonisti di quegli eventi (ormai sempre meno!) ha il diritto di avere una sua memoria personale, non necessariamente uguale a quella degli altri, soprattutto di quelli che si trovavano dall’altra parte “della barricata”.
Personalmente credo che dovremmo, innanzitutto, dopo tanti anni da quegli eventi, avere il rispetto e la pietà per tutti i morti di quella guerra, sfociata poi nella tragica guerra civile. Dovremmo cercare di rileggere con cura quel recente passato, quel novecento italiano, con il quale finora non abbiamo mai voluto o potuto fare i conti. Questo lo dobbiamo a noi stessi ma soprattutto lo dobbiamo alle nuove generazioni a cui siamo chiamati a rispondere alle domande relative proprio al nostro recente passato, che ci piaccia o no.
Il tema non è, e non deve essere, chi fosse dalla parte giusta o dalla parte sbagliata nei 20 mesi della Repubblica di Salò: su questo aspetto non ci sono e non ci devono essere dubbi tra coloro (pochi, per la verità, all’inizio!) che avevano scelto libertà e democrazia e coloro (tanti, per la verità, per non capirne “il come mai”!) che invece avevano scelto la tirannide e l’oppressione dei dissidenti.
Il tema, a mio avviso, dovrebbe essere, invece, quello di andare oltre una narrazione autoassolutoria, sviluppatasi nell’immediato dopoguerra che, da un lato, ha perpetrato il mito, non vero, di “italiani brava gente“ e, dall’altro lato, ha individuato “i cattivi” soltanto nei fascisti di Salò, bloccando in tal modo lo studio e l’approfondimento sul periodo fascista pre-1943, costruendo una vulgata pericolosamente inveritiera: una vulgata che ha tramandato sostanzialmente la storia di un Paese “di brava gente” che, dopo una parentesi oscura, aveva vinto la guerra, alleandosi, anche se in ritardo, con le democrazie occidentali.
Le ragioni di questa narrazione, che ha impedito un’analisi più dura ma veritiera di quanto accaduto in Italia con l’avvento del fascismo, sono note e ce le ha ricordate con chiarezza e spietato cinismo Gianni Oliva nel suo ultimo saggio intitolato “45 milioni di antifascisti” (Mondadori). Nel 1945, la classe dirigente politica italiana formata da democristiani, comunisti, socialisti e liberali (quella élite che, attraverso il CLN, aveva permesso ad una parte del Paese di aiutare, fin dal settembre del ’43, gli alleati a liberarci dal nazifascismo) di fronte ad un Paese distrutto, sia materialmente sia eticamente, pensò di concentrare l’attenzione e gli sforzi sulla pacificazione degli italiani, nel tentativo di ricostruire un Paese senza l’incubo di un passato da dimenticare al più presto.
Si preferì, in altre parole, girare pagina costruendo una narrazione di quanto accaduto prima non accusatoria ma assolutoria. Una ricostruzione parziale e in parte non vera ma tale da permetterci di evitarci una epurazione degli ex fascisti, una epurazione che avrebbe “tagliato la testa” a tutta la classe dirigente del Paese sia nel settore pubblico che in quello sia privato, essendosi compromessa totalmente con il regime.
Bisognava concentrarsi sulla ricostruzione dell’Italia; c’era bisogno che tutti gli italiani si gettassero “pancia a terra“ a rimettere in piedi un Paese distrutto dai bombardamenti, sfasciato psicologicamente, rabbioso e diviso dalle conseguenze della terribile guerra civile; desideroso soltanto di tornare a vivere, mangiando magari due volte al giorno e occupandosi della propria famiglia e dei propri affetti; riappropriandosi, nella sostanza, di una vita normale, serena e senza incubi atroci.
Sì, poi, certo, finalmente, un Paese libero e democratico dopo gli anni bui del regime, non più schiavizzato dai rituali di una dittatura che aveva deluso, stancato e distrutto la coesione pacifica tra gli italiani. Il risultato di tale colossale operazione culturale, denominabile “andiamo oltre” oppure “scordiamoci il passato”, fu indubbiamente positivo così come possiamo constatarlo noi posteri, prendendo atto del cambiamento dell’Italia e degli italiani in queste ultime otto decadi trascorse da allora.
Il prezzo pagato per questa operazione fu molto alto, però: passò il messaggio ispirato da Benedetto Croce (il fascismo fu una parentesi negativa causata da una banda di masnadieri: ora l’Italia e gli italiani possono riprendere il cammino glorioso iniziato con il Risorgimento). Fu messo, invece, in soffitta, perché non in linea con la strategia dell’autoassoluzione, il lucido commento di Piero Gobetti (“il fascismo è stato l’autobiografia del Paese”, fu la fotografia tramandataci dal martire antifascista). Aver scelto di non fare i conti con la nostra storia del Novecento, cancellandola con un colpo di spugna, ha lasciato dietro di sé delle scorie che, con movimento ondulatorio, tornano alla ribalta delle cronache con frequenza.
Come ad esempio, la voce dei vinti, dimenticati; oppure, la constatazione che almeno fino al gennaio del 1925 (al famoso discorso di Mussolini in Parlamento quando si assunse ogni responsabilità in ordine all’assassinio di Giacomo Matteotti, dando inizio ad un vero e proprio regime dittatoriale), la maggioranza degli italiani si era illusa che il fascismo potesse riportare ordine e prosperità, anche sociale, dopo un primo dopoguerra tragico e insanguinato; oppure, ancora la rilettura di una guerra civile che lascia nella sua tragicità e in ogni Paese, non solo in Italia, conti in sospeso, nefandezze da non dimenticare, odio e vendette, antagonismi laceranti.
Forse, oggi, a quasi ottant’anni di distanza, potremmo essere finalmente vicini ad una presa d’atto collettiva di quanto accaduto. Non per revisionare, lo ripeto, chi fosse dalla parte giusta della storia, questo è sempre stato chiaro, ma per capire chi siamo stati noi italiani in quel ventennio e poi in quei terribili 20 mesi dal 1943 al 1945.
Probabilmente non “brava gente” ma un popolo ancora alla ricerca di un’identità comune, con una storia alle spalle relativamente recente da conoscere e, soprattutto, riconoscere come propria. In questo complesso e faticoso contesto, il Presidente Mattarella continua a darci degli esempi di come bisognerebbe cercare con determinazione e lucidità una strada per commemorare con orgoglio e senso di gratitudine coloro che ci permisero di arrivare al 25 aprile 1945, riappropriandoci delle nostre libertà individuali e collettive.
“Il 25 aprile – ha ricordato il Presidente alla cerimonia a Civitella in Val di Chiana – è, per l’Italia, una ricorrenza fondante: la festa della pace, della libertà ritrovata e del ritorno nel novero delle nazioni democratiche. Quella pace e quella libertà che hanno prodotto la costituzione repubblicana, in cui tutti possono riconoscersi e che rappresenta garanzia di democrazia e di giustizia, di saldo diniego di ogni forma o principio di autoritarismo o di totalitarismo. A differenza dei loro nemici, imbevuti del culto macabro della morte e della guerra, i patrioti della resistenza fecero uso delle armi perché un giorno queste tacessero e il mondo fosse finalmente contrassegnato dalla pace, dalla libertà, dalla giustizia”. Questo dovrebbe essere il modo per ritrovarci tutti, e ripeto tutti, in piazza, il prossimo 25 aprile 2025, quando si commemorerà l’ottantesimo anniversario della riconquista della nostra Libertà.
Riccardo Rossotto