Siamo alla terza puntata di un dibattito così come auspicato da Riccardo Rossotto nella sua introduzione e Pietro Paganini nel suo primo intervento. Così, dopo la prima replica di Cesare Valli, continua la discussione sulla proprietà intellettuale e i vaccini che sono l’unica via d’uscita dalla pandemia. Autore è una new entry dell’Incontro: Emanuele Gatti, presidente della Camera di Commercio Italiana per la Germania, manager per oltre 15 anni di una Multinazionale Healthcare quotata al DAX 30 a Francoforte e Professore di Traslazione di Innovazioni Biomedicali e docente presso parecchi corsi di Master, PhD in Italia, Austria e Germania.
L’attuale dibattito sulla disponibilità di vaccini e soprattutto sulla loro proprietà intellettuale riprende alcuni temi già noti in letteratura, ma la gravità degli effetti della pandemia richiede anche nuovi punti di vista, che forse allargano l’orizzonte e danno una prospettiva temporale più a lungo termine.
L’errore di percorrere un cammino, programmato e prevedibile, per poi accorgersi solo alla fine che l’armamentario terapeutico non è nelle mani pubbliche, mentre lo è la responsabilità della salute pubblica, ci costringe a vivere ancora più drammaticamente la pandemia da SARS-CoV-2. Da un anno a questa parte, infatti, era noto che la ricerca sui vaccini procedeva speditamente, si sperava che essi sarebbero arrivati presto, come pure si sapeva che sarebbero stati di proprietà delle case farmaceutiche. Varie organizzazioni nazionali o transnazionali hanno partecipato attivamente, soprattutto mettendo a disposizione mezzi finanziari, al magnifico successo tecnologico dei vaccini, ma ora non sono in grado di gestirne produzione, distribuzione e prezzo: è fondamentalmente un problema di “governance”.
Forse possiamo mettere a frutto l’esperienza recente e cercare di migliorare il processo di sviluppo e, visti gli effetti tremendi della pandemia, tutta la comunità, con i suoi organi di governo, si deve prendere in carico l’”ownership” della prevenzione e della cura, ivi compreso lo sviluppo di farmaci.
I vaccini sono stati studiati per ridurre gli effetti gravi della malattia da SARS-CoV-2 con una alta percentuale di probabilità (non comunque 100%) e stanno pienamente dimostrando l’efficacia, ma la loro capacità di ridurre o eliminare il contagio è ancora tutta da dimostrare. Ciò vuol dire che in aggiunta al problema di raggiungere, in tempi strettissimi, l’intera cittadinanza mondiale con la copertura vaccinale, dovremo convivere a lungo con le rivaccinazioni, con una popolazione di non vaccinati, con una percentuale (bassa) di vaccinati che potrebbero ammalarsi, anche seriamente. A questo si aggiunge il rischio di ulteriori varianti che sfuggano alla copertura. Accanto allo sviluppo di vaccini sempre aggiornati, sicuri ed efficaci, occorre quindi pensare all’armamento terapeutico aggiuntivo, fondamentale per curare chi si ammalasse, gravemente o meno.
In aggiunta alla ben nota necessità di aumentare la capacità produttiva di prodotti già sul mercato, ci si presentano parecchie sfide tecnologiche che andranno poi validate clinicamente: piattaforme vaccinali per coprire tutte le varianti ed eventualmente altri virus simili, tecnologie a mRNA che siano stabili a temperature ambiente o poco negative, metodi di somministrazione di vaccini differenti dalla intramuscolare (tipo cerotto, spray etc.) che favoriscano la facilità di accesso, farmaci nuovi o il cui profilo terapeutico venga ristudiato e reindirizzato con una nuova indicazione per malattie virali.
Alcune tecnologie richiedono un trasferimento tecnologico dallo stesso campo di azione, altre invece possono necessitare competenze anche diverse ed estranee, per ora, al mondo farmaceutico, tipo l’Intelligenza Artificiale (IA).
È logico pensare che le aziende bio-tecnologiche e farmaceutiche si stiano attrezzando sia con mezzi propri sia con collaborazioni esterne sia con acquisizione di aziende che apportino know-how. Queste ultime sono normalmente spin-off universitari o start-up nate da un’idea di qualche ricercatore. Le aziende farmaceutiche sono degli eccezionali motori di sviluppo di un prodotto, ma l’innovazione iniziale, il cosiddetto “drug discovery”, ed il caso dei vaccini è esemplare, viene spesso da altrove.
Quindi la partenza avviene raramente all’interno di una corporation e l’arrivo, cioè la validazione clinica, avviene in istituti di cura o addirittura nella popolazione di volontari per studi clinici, la cui proprietà non è di una corporation.
Occorre quindi agire sui due piani, partenza-arrivo, e ricostruire la “governance” della proprietà del patrimonio immateriale di conoscenza. La collaborazione pubblico-privato, che così tanti frutti ha portato, si è basata finora su pilastri ben consolidati, sia in fatto di responsabilità che di remunerazione, dove l’industria viene remunerata dagli utili sulle vendite e la comunità dalla disponibilità di farmaci efficaci e a costo “contenuto” o “accettabile”. Il “prezzo” stabilito doveva quindi essere uguale od inferiore al “valore” attribuito dall’utenza, misurato sulla base dell’efficacia terapeutica del prodotto o del rapporto tra beneficio e sforzo finanziario dell’acquisto. La società ha rinunciato forse a riconoscersi una remunerazione più elevata per il supporto dato alla nascita di nuovi prodotti dalla ricerca di base da lei finanziata, dalla sperimentazione pre-clinica e/o clinica sviluppata nelle proprie istituzioni, dalla partecipazione a studi clinici su suoi volontari o pazienti. È cosa nota che gli studi clinici di fase III siano estremamente costosi, perché i farmaci vengono ceduti gratuitamente, i costi di analisi e test sono in carico dei fabbricanti, così come gli onorari degli sperimentatori, dei monitor e dell’organizzazione tutta. Comunque, la base di partenza è la possibilità di accesso ai pazienti da “testare”, il cui valore per la loro disponibilità non viene forse correttamente calcolato e riconosciuto alla società. Il valore di un brevetto, senza una validazione clinica, è basso o nullo. Sarebbe quindi il caso di porsi la domanda di chi debba assumersi l’onere di tale validazione e quindi stabilire una diversa “governance” sia della sperimentazione che dell’utilizzo e gestione del prodotto finito, ivi compreso il suo “prezzo”.
D’altro canto, la sterminata conoscenza prodotta da enti pubblici, sia in fase preliminare (ricerca di base), che in fase traslazionale e clinica è fondamentale per addivenire ad un’idea e poi ad un prodotto finito. E se non bastasse, il prodotto va poi monitorato ed eventualmente aggiornato durante tutto il suo ciclo di vita.
Il risultato della ricerca di base è pubblico, senza ombra di dubbio, tuttavia andrebbe cercato un “ritorno” che non può essere solo la reputazione scientifica dell’ente dove si è svolta la ricerca o del ricercatore stesso. Si è spesso dibattuto sulla necessità di stimolare gli scienziati a produrre “brevetti”. Indipendentemente dal fatto che la legislazione sui brevetti poco si coniuga con alcuni specifici know-how dei processi biotecnologici, sembra semplicistico assegnare ai ricercatori un compito che non è nelle loro corde. Occorre in prima istanza che l’organizzazione in cui si svolge la ricerca si “organizzi” per la gestione brevettuale. Le varie fasi del processo, dall’analisi della letteratura antecedente, che spesso è criptica per un ricercatore, alla “strategia brevettuale” richiedono profonde competenze specifiche. Spesso in ambienti scientifici si ritiene che la stesura del testo del brevetto sia l’unico elemento del processo. Non è così, occorre un sistema di analisi delle potenzialità, del corso dell’esame per la concessione, dell’analisi di presunte violazioni di brevetti concessi, di negoziazione con potenziali acquirenti o con target per azioni di rivalsa: occorre, insomma, un processo organizzato, costante e continuo in cui si valutino le nuove possibilità, si verifichi il “magazzino” della propria proprietà intellettuale e si traggano conclusioni e decisioni economiche.
Anche per la possibilità di trovare nuove indicazioni per farmaci esistenti, come si sta facendo per la cura del COVID-19, la collaborazione pubblico-privato è fondamentale. L’intuizione medica di un nuovo potenziale utilizzo spesso nasce non solo da conoscenze farmacologiche, ma da esperienze cliniche, fatte sul campo. Alcuni utilizzi per uso compassionevole di farmaci, la cui indicazione autorizzata era diversa, hanno portato a successi terapeutici importanti. Questo processo traslazionale avviene per lo più in organizzazioni pubbliche, universitarie o no. Lo scopritore della potenziale applicazione viene eventualmente remunerato sotto varie forme legali dal produttore, ma l’istituzione, che ha messo a disposizione competenze ed infrastrutture, spesso non riceve un ritorno. Entrambi dovrebbero approfittarne.
Per non parlare dell’utilizzo dell’IA nella ricerca di nuove indicazioni. Il valore di una conoscenza acquisita in anni di studi viene spesso monetizzata come una semplice e sola prestazione di un supercalcolatore.
In conclusione, la situazione di oggi ci dovrebbe stimolare a rianalizzare ed eventualmente modificare la partecipazione dei vari attori allo sviluppo di un prodotto farmaceutico ed a ridefinire la distribuzione del ritorno economico.
Accanto al valore sociale della disponibilità del farmaco, la società dovrebbe considerare di pretendere una “remunerazione” di tutti i passi da lei compiuti o cui ha collaborato nello sviluppo, rimodellando la “governance” del rapporto pubblico-privato. E non disdegnando, se del caso, di acquisire quote societarie e divenire imprenditore in prima persona per difendere un valore assoluto, quello della salute pubblica. Questa emergenza ci ha insegnato che le uscite di cassa per la sanità non sono costi, ma se gestite propriamente, sono investimenti, senza cui l’economia reale tutta non può generare valore.
Emanuele Gatti