Una delle caratteristiche delle città di frontiera è quella di essere incardinate, più che soltanto attraversate, da genti diverse, espressione della Storia che hanno alle spalle. E’ il caso, ad esempio, di Trieste che negli ultimi secoli, prima di approdare all’Italia dopo la Grande Guerra ed essere vanamente contesa dalla Jugoslavia nell’immediato secondo dopoguerra, è appartenuta all’Impero austro-ungarico diventandone il principale porto, esposta, come tale, ai traffici dei paesi mitteleuropei allora facenti parte dell’Impero, importando con le merci lingue e culture, in una dimensione cosmopolita all’interno della quale l’unico elemento distintivo è stato l’italiano come lingua franca, d’uso comune da parte delle diverse componenti etniche e culturali che ne arricchivano il tessuto cittadino.
In questo contesto è significativo il libro “Gente di Trieste” di Pietro Spirito, scrittore e giornalista de Il Piccolo, storico quotidiano della città, anche lui ormai incardinato nella vita triestina, dopo esserci arrivato da Caserta. Dalle straordinarie storie che racconta emerge chiaramente, non senza sorprese, il caleidoscopico microcosmo di uomini, donne, personaggi provenienti da diverse latitudini e qui trovare il terreno giusto per dare corpo alle loro idee, scoperte, invenzioni, sogni. C’è da sottolineare, inoltre, che la gente di cui si occupa Spirito non è sempre quella più nota, bensì figure più defilate ma non meno importanti, dietro le quali si agitano storie che più stuzzicano il gusto narrativo o romanzesco dell’autore.
Ad esempio, nel campo della letteratura, come non pescare nella tradizione che può contare su nomi come Svevo, Slataper, Saba, Stuparich, Quarantotti Gambini, Tomizza? Eppure, Pietro Spirito indaga su un altro poeta, scrittore e drammaturgo che arrivato al momento fatidico della pubblicazione ogni volta si tira indietro, per cui di lui abbiamo solo alcune, poche, poesie nell’Almanacco dello Specchio della Mondadori, un’antologia curata da Vittorio Sereni, che comprende anche poeti come Kavafis, Ezra Pound, Bertolucci. Parliamo di Paolo Universo, nato Giuseppe, ma che si è sempre presentato con Paolo. Intimo amico di Giovanni Comisso, è animatore della boheme triestina negli anni Sessanta, riunita intorno al salotto di Anita Pittoni e la sua casa editrice dello Zibaldone, mentre, contemporaneamente, frequenta Calvino, Buzzati, Pasolini, Ungaretti. E, naturalmente, anche lui scrive, scrive tanto, ma inutilmente, almeno rispetto alla conclusione logica del suo lavoro. Pascale Janot, che dopo la morte di Paolo Universo avrebbe curato una pubblicazione in Francia di sue poesie, scrisse: “Per tutta la vita si è autoemarginato, finendo però per soffrire di questa stessa autoemarginazione. Proprio non riusciva a trovare pace”. Poi, Spirito dedica anche non poche pagine a Saba, ma perché intrigato dalla personalità del poeta, che, pur di fronte alla grandezza dei suoi versi, rivela un’umanità povera, segnata da una sostanziale anaffettività nei confronti di chiunque, probabilmente a causa dell’abbandono da parte del padre alla sua nascita e l’allontanamento della madre che lo consegnò, liberandosene, nelle mani della balia Gioseffa Gabrovich, detta Giuseppina, in quel di Duino. Diventato grande, un po’ guascone, nullafacente, riesce ad aprire in via San Nicolò a Trieste la famosa libreria antiquaria, tuttora esistente, dove, già sposato e padre di Linuccia – che lui non la vuole tra i piedi e obbliga la moglie a darla a balia – se la fa un po’ con tutte le commesse avute negli anni fino a mettere incinta una di esse e a nasconderlo a tutti.
A Svevo, il gigante della letteratura non solo triestina, dedica non più di un paio di pagine, già tanto indagatissimo da par suo, mentre molto spazio, cambiando campo e passando a quello imprenditoriale, dedica, ad esempio, a Osiride Brovedani. Chi era costui? Direte. Ma una crema di sua diffusione è passata per le mani di tante mamme nel mondo, trattandosi della pasta Fissan. Nato nel 1893, nel 1930 conosce Arthur Sauer, chimico e imprenditore farmaceutico, titolare della Deutsche Milchwerke, scopritore del Labilin, il principio attivo di una crema straordinaria per la pelle, che Sauer ha chiamato, appunto Fissan. Brovedani, che ben s’intende con Sauer, fiuta l’affare e si accorda con l’amico affinché egli abbia la licenza per la preparazione e la commercializzazione della pasta Fissan in tutta Italia. A campo San Giacomo nel quartiere operaio in cui vive, apre in un appartamento la produzione, e gli affari che produce, diventano sempre più grandi fino ad allargarsi sempre più nel quartiere, dando lavoro a tantissima gente. Naturalmente, l’invidia alligna e, durante l’occupazione tedesca di Trieste, qualcuno suggerisce ai nazisti che Osiride è di madre ebrea, per cui eccolo essere arrestato per finire a Buchenwald, quindi a Mittelbau-Dora e, infine, a Belsen, con il numero 76360 tatuato sul braccio, dove si salverà grazie al fatto che parla tedesco e ottenendo così un posto di scritturale nella cancelleria dell’ospedale. Qui, scrive Spirito: “La sua strategia di sopravvivenza passa attraverso l’ascolto delle voci interiori, il perentorio richiamo alla vita che alberga dentro ognuno di noi. Quando si tocca il limite dell’umano non resta che trovare in sé, nel valore del proprio vissuto, la forza per sopravvivere”. Finita la guerra, torna a Trieste e riprende, accanto alla moglie Fernanda che ha continuato a produrre la pasta Fissan, la sua attività, per diventare il prodotto leader tra gli anni Sessante e Settanta. Il fatturato sale vertiginosamente, tanto che dal Campo San Giacomo sarà costretto a trasferirsi in un moderno capannone nella zona industriale della città, mentre i tedeschi gli rinnovano la licenza per poi diventare amministratore delegato dell’azienda. Morirà per un infarto a settasette anni, nel 1970, e il suo patrimonio privato, calcolato in 5 miliardi di lire, sarà usato per finanziare una Fondazione a favore dei bambini orfani, che costruirà a Gradisca d’Isonzo un grandissimo convitto che darà asilo, e non solo, a più di cento ragazzi orfani. “Poi, con la legge nazionale che impone la chiusura degli orfanotrofi, la struttura si converte e rimane, a tutt’oggi, rinomata residenza per anziani, gratuita come lo fu il convitto”, mentre nel 1985 la Fissan passa di mano, prima degli inglesi, quindi degli americani. “Nel 2005 il fatturato registra 25 milioni di euro all’anno”.
Ma la schiera di imprenditori, partiti da zero, forti solo della loro creatività e coraggio sono diversi a Trieste. Primo Rovis, profugo istriano, da Gimino, arrivato a Trieste con una valigia di cartone con dentro solo due camice e un paio di calzini bucati, punta sul caffè, che a Trieste, grazie al porto attraverso il quale questo transita verso il nord Europa, ha una antica tradizione. Nel 1951 apre al centro di Trieste una torrefazione, il Cremcaffè di Primo Rovis, che poi via via si espanderà fino a diventare nel 1979 uno degli uomini più ricchi d’Italia. “Ma da imprenditore venuto su dal nulla” scrive Spirito “intelligente e abile negli affari, Rovis capisce che la pacchia non può durare. Nel 1989 , l’anno della caduta del Muro di Berlino, Primo Rovis cede la sua attività per una cifra astronomica”. In seguito farà molta beneficenza, tra le cui donazioni lo sviluppo a sue spese della divisione di cardiochirurgia dell’Ospedale Maggiore, ed altre donazioni, mentre imbocca la strada del commercio delle pietre, che lo porterà sostanzialmente a dissanguare, anche per la sua generosità, il suo patrimonio.
Sempre nel campo del caffè, Pietro Spirito non dimentica le storie avvincenti di Hausbrandt e di Illy, mentre non poco interesse suscitano le storie di Vittorio Benussi, che l’autore segue fin dai suoi studi a Graz, allievo di Meinong, frequentatore anche del suo laboratorio di psicologia, “La prima istituzione del genere nell’ambito dell’Impero”, diventando, dopo altre esperienze, assistente dello stesso Meinong. Per farla breve, sarà lui l’inventore della famosa “macchina della verità”. “Molti suoi allievi saranno collaboratori e soggetti-cavie degli esperimenti in laboratorio con le macchine della verità e di indagine della psiche, dal poligrafo al tachistoscopio, dall’iconoscopio al cronoscopio fino al pneumografo di Marey, senza contare gli strumenti progettati e costruiti dallo stesso Benussi”, che nel 1927 si suiciderà bevendo un te al cianuro, del quale si portava sempre dietro una capsula. La sua sofferenza stava nella sindrome bipolare di cui era affetto. Lo troveranno cadavere i suoi allievi all’Università di Padova, primo tra tutti il futuro famoso psicanalista Cesare Musatti, allievi che per sessant’anni terranno nascosto il fatto che il loro Maestro si sia suicidato.
Ma Benussi non sarà vissuto invano solo per la psicologia. Un suo amico, Guido Horn d’Arturo, diventerà famoso, ottenendo il Premio Stambucchi per l’Astronomia, grazie alla teoria del black drop di Benussi, applicata, appunto, all’astronomia, che a Trieste gode di un Osservatorio sorto per merito del bavarese Johann Nepomuk Krieger, che arrivò qui grazie al cielo spazzato dalla bora che nelle notti gli consentivano, con il suo telescopio di vedere la luna e mapparla, disegnandone a matita meticolosamente la superficie. A lui si succederanno, Horn stesso, appunto, e, in tempi più recenti, Margherita Hack.
La galleria dei triestini ingegnosi e straordinari non finisce qui, e vanno da una pittrice sconosciuta, del tutto dimenticata per la sua vita claustrale all’inventore dell’elica, da un personaggio storico famoso, eroe per gli italiani, come Nazario Sauro, a un altro personaggio storico, eroe per gli sloveni di Trieste, come Zorko Jelinčič, considerato il Gramsci sloveno, a eroi più defilati, come Rodolfo Maucci al quale i tedeschi, durante l’occupazione della città, affidarono la direzione de Il Piccolo, e lui, assieme ai suoi collaboratori più fidati, mise a rischio la propria vita censurando le notizie agli occhi dei tedeschi, tagliandole, correggendole, cestinandola, conquistando la fiducia dell’uomo, Anton Cerjak, che i tedeschi gli avevano messo alle calcagna per controllarlo, guadagnandone la complicità. Ed è il suo nome che chiude questo album ricco di nomi e di storie che travalicano tutte, come si è visto, l’ambito cittadino, per diventare esempi di creatività, intelligenza, coraggio, generosità, offrendo tutti opere molte delle quali diventate patrimonio dell’umanità intera. La tesi di fondo di Pietro Spirito, e del “Virgilio”, in questo caso una donna, che l’accompagna nel suo viaggio, contraddistinta dalle lettere E.B, è che la città di Trieste, la sua posizione, la sua anima, quel mare ai piedi del Carso, e il suo essere frontiera, non sia del tutto estranea al fenomeno.
Diego Zandel