La crisi della cultura è stata totale, ma non ha colpito tutti nello stesso modo. Come si dice per il paragone tra Atene e Sparta se i musei “non ridono”, i teatri, invece, piangono proprio.
Un po’ di numeri
Il 76,5% dei teatri ha fatto ricorso agli ammortizzatori sociali, contro il pur ragguardevole 48,7% dei musei. Percentuali molto diverse che testimoniano come, anche nel contesto generale che ha colpito duramente le istituzioni culturali, ci siano profonde differenze. E anche le prospettive di ripresa sono molto diverse.
Ma non solo. Queste cifre raccontano di un passato prossimo che, tuttavia, segna la strada di un futuro (remoto) di ripresa.
Una ricerca coordinata da Andrea Rurale nell’ambito dello SDA Bocconi Arts and Culture Knowledge Centre, che ha preso in esame un campione costituito da musei (musei civici, poli museali regionali, gallerie, fondazioni musei nazionali autonomi) e teatri (fondazioni liriche sinfoniche, teatri di tradizione, associazioni teatrali indipendenti) per il periodo tra il 20 aprile e il 12 maggio scorsi ha descritto la situazione attuale e le prospettive future.
“I musei infatti avranno più facilità a ripartire”, dice Andrea Rurale, “il distanziamento sociale è impensabile in una sala teatrale sia tra il pubblico, dove metà della platea risulterebbe vuota, sia sul palcoscenico dove si potrebbero mettere in scena solo monologhi. Inoltre nei musei le opere sono già presenti ed esposte e possono organizzarsi per limitare gli accessi e predisporre nelle sale percorsi obbligatori, mentre i teatri devono interagire con manager e artisti oltreché con il pubblico”. A supporto di questa considerazione, un dato eloquente: il 73,5% dei teatri ha risolto, o pensa di risolvere, contratti per causa di forza maggiore contro il 17,9 dei musei.
“Se entrambi hanno sofferto per i mancati introiti derivanti dalla vendita dei biglietti e dalle sponsorizzazioni”, spiega ancora Rurale, “i musei sono avvantaggiati dal fatto di avere in molti casi i dipendenti pagati dallo stato, mentre nei teatri il personale è quasi sempre a carico delle stesse istituzioni”. Senza ovviamente dimenticare il gran numero di persone, i cosiddetti lavoratori intermittenti, come maschere e guide turistiche, che sono stati esclusi da tutti gli ammortizzatori sociali previsti nei primi decreti.
E tutto questo è stato la premessa alla mobilitazione dei lavoratori dello spettacolo che è avvenuta sabato scorso a Torino, Milano, Roma e in molti altri centri.
“Il sistema si regge su un equilibrio precario che coinvolge il più grande finanziatore delle attività teatrali, che è la pubblica amministrazione”, sottolinea Rurale, “le sponsorizzazioni private spesso con un orizzonte a breve periodo e i ricavi della biglietteria. Emerge chiaramente dall’analisi la necessità di un approccio strategico a medio lungo periodo, la necessità di programmare più a lungo non solo il calendario di ogni stagione ma anche l’evoluzione delle altre attività”.
Ecco perché come ha sottolineato il regista e drammaturgo Gabriele Vacis, si tratta di pensare al teatro del futuro per immaginare come “fare” teatro in futuro.
La sua idea è stata al centro della sua discussione con Paolo Verri, già direttore del Salone del Libro di Torino, di Matera 2019 e del Padiglione Italia di Expo 2015.
Dal reale al digitale
“E nonostante entrambe le categorie prese in esame abbiano garantito una presenza costante sui social utilizzando soprattutto materiale d’archivio per creare storytelling (lo ha fatto il 77%delle istituzioni del campione) e contenuti per il giovane pubblico (65%), tali attività sono completamente gratuite e non fanno altro che sottolineare ulteriormente la precarietà di un modello di business che dipende troppo dagli introiti dei biglietti e dalle sponsorizzazioni, che in questa fase sono state quasi interamente riversate sul fronte sanitario”, ha concluso Rurale.