Il Podgora è una collina alta 240 metri sul livello del mare che si trova un pugno di chilometri ad Ovest di Gorizia, appena al di là dell’Isonzo. Di notte se ne vede la sommità illuminata.
Il primo tentativo di conquista fu attuato dalle truppe italiane nell’estate del 1915: il tentativo fu ripetuto con altissimo numero di perdite e il controllo fu consolidato solo oltre un anno dopo, con la presa di Gorizia.
Ogni movimento delle nostre truppe era fatalmente intercettato dagli osservatori austroungarici posti sul Monte Sabotino, poco a Nord, che potevano orientare con precisione un distruttivo fuoco di artiglieria. Sul Podgora trovò la morte, il 3 dicembre 1915, anche Scipio Slataper, una delle voci più nitide della letteratura irredentista: lo ricorda una targa a borgo strada.
Già, la strada.
Per giungere alla sommità si percorre una stretta carrabile di curve e tornanti in una folta vegetazione e qua e là si scorgono lapidi e monumenti. Si sale pian piano. Curve, tornanti, fitta vegetazione.
Si sale per vedere il fronte goriziano (anzi, come scrivevano i giornali dell’epoca, “la fronte”).
Si sale per il colpo d’occhio, che dovrebbe andare dal Sabotino a Gorizia al San Michele e poi giù verso il Golfo di Trieste, intravedendo o almeno intuendo i declivi intermedi, come il Sei Busi e l’Hermada.
Tutti nomi che hanno segnato tremende pagine di “spallate” rivelatesi vane e costate centinaia di migliaia di perdite. Si arriva finalmente sulla sommità dove si staglia il grande obelisco. Ecco, sì, lì ad Est dovrebbe esserci il colpo d’occhio.
Invece no.
Quando ci sono stato, infatti, un bosco di alte robinie impegnava il panorama, impedendo la visuale.
Si poteva cercare qualche varco qua e là, ma solo varchi. Davvero un peccato.
Rientrato, avevo scritto al Sindaco di Gorizia, segnalando la situazione. Mi aveva risposto a strettissimo giro con tono garbato: proprietà privata, nulla può il Comune. Quello che le robinie private impedivano dalla sommità del Podgora mi è stato, però, consentito dalle adiacenze dell’imponente ossario di Oslavia, pochissimi chilometri a Nord. Vi riposano circa sessantamila caduti.
La vista spazia sul Sabotino, sul Monte Santo, sul San Gabriele, l’Isonzo e Gorizia.
Appena oltre svetta una serie di palazzoni che sembrano costruiti col Lego, ma tutti grigi, grigi grigissimi, rigorosamente allineati: Nova Goriça – e quello era il panorama di un Paese di Socialismo reale, benché “non allineato”. Il Sabotino era uno dei perni della difesa di Gorizia e ritenuto dall’esercito austroungarico inattaccabile. Ci avevano provato in tutti i modi le nostre truppe a prendere quel panettoncino brullo imbottito di gallerie, artiglierie, trincee e nidi di mitragliatrici. Bastarono, in un bel giorno di brutto tempo dell’inizio di agosto del 1916, meno di quaranta minuti per fare ciò che non si era riusciti a fare in un anno.
Per superare quello che non si era superato in un anno.
Per scrivere una pagina di gloria dei “Lupi di Toscana” (che in realtà erano di stanza a Brescia e Bergamo).
“Fu come l’ala che non lascia impronte, al primo grido avea già preso il Monte”, come scrisse D’Annunzio.
Niente attacco frontale in massa, niente pausa tra il fuoco di artiglieria e l’attacco delle fanterie.
Attacco immediato e a sorpresa, in pieno giorno, dopo un’accurata preparazione e coordinamento di quanto osservato dai temerari ricognitori e, a seguire, immediatamente, gli zappatori per il ripristino delle posizioni conquistate.
Non solo.
Un accorgimento – si legge – si rivelò decisivo: un cerchio di vernice bianca disegnato sulla schiena delle divise dei nostri soldati all’attacco. In questo modo l’artiglieria in appoggio evitò che al furibondo e micidiale fuoco nemico si aggiungesse l’orrore, la tragedia, la beffa di quello amico.
Sì, qualche secchio di vernice, dunque.
La semplicità a volte è davvero rivoluzionaria.
Claudio Zucchellini