Domenica 12 giugno, insieme alle elezioni amministrative, si voterà su cinque referendum in tema di giustizia, promossi da Lega e Radicali e ammessi lo scorso 16 febbraio dalla Corte costituzionale. Gli italiani dovranno esprimersi su 5 quesiti riguardanti: custodia cautelare, separazione delle carriere dei magistrati, elezione del Csm, consigli giudiziari, incandidabilità dei politici condannati. Dopo aver ospitato l’intervento dell’avvocato Mirco Consorte, coordinatore progetto Giustizia penale e diritti fondamentali presso IgiTo – Istituto giuridico internazionale di Torino pubblichiamo il contributo dell’avvocato Paolo Borgna, magistrato di Torino, sul voto agli avvocati nei consigli giudiziari.
Voterò convintamente SI’ al referendum che vuole affidare agli avvocati (già presenti nei consigli giudiziari) il diritto di voto nella valutazione della professionalità dei magistrati. Come si arriva a questo referendum? Tutto nasce da una riforma mutilata.
Una riforma importante nata mutilata
Nel 2006 una legge previde che una componente minoritaria di avvocati entrasse nei consigli giudiziari. (Organi di magistrati eletti dai loro colleghi che, a livello locale, prendono decisioni organizzative ed esprimono valutazioni e pareri sulla progressione in carriera di giudici e pubblici ministeri). Fu una riforma importante, grazie alla quale gli avvocati possono concorrere nelle scelte degli assetti organizzativi dei palazzi di giustizia. Ma fu una riforma mutilata. Perché la legge del 2006 stabilisce che gli avvocati non hanno diritto di voto sulle valutazioni di professionalità dei magistrati. In sostanza, gli avvocati, presenti nei consigli giudiziari, diventano muti quando si discute della cosa che meglio conoscono. Ovvero il lavoro dei magistrati che ogni giorno incontrano nelle aule di giustizia. E inoltre la loro preparazione, la laboriosità, la buona educazione, la presenza in ufficio. Quest’ultimo particolare non da poco, in quanto l’arrivo e l’uscita dall’ufficio di un magistrato non è soggetto ad orari controllati.
Restituire la parola e il voto agli avvocati
Oggi, il referendum su cui siamo chiamati a esprimerci il 12 giugno tende a restituire la parola e il voto agli avvocati. Anche quando si valuta la professionalità del magistrato.
La legge delega approvata (non definitivamente) ad aprile dalla Camera modifica solo in parte la situazione disegnata nel 2006. Prevede (all’art.3) che gli avvocati presenti in consiglio giudiziario possano votare sulla professionalità dei magistrati solo se c’è una segnalazione su fatti specifici da parte del consiglio dell’ordine. Inoltre – secondo la riforma – il voto degli avvocati deve essere espresso unitariamente. Insomma, se venisse definitivamente approvata sarebbe una riforma … semi-mutilata. Gli avvocati (come “figli di un dio minore”) non si troverebbero affatto in una posizione paritaria rispetto ai magistrati. Ancora una volta, un’occasione mancata.
Imparare a comprendere e compatire fa crescere la stima
Sono affezionato ad una frase di Piero Calamandrei da incidere nella pietra. “Bisognerebbe che ogni avvocato, per due mesi all’anno, facesse il giudice. E che ogni giudice, per due mesi all’anno, facesse l’avvocato. Imparerebbero così a comprendersi e a compatirsi: e reciprocamente si stimerebbero di più”.
E da trent’anni continuo a citare una frase che Domenico Riccardo Peretti Griva scrisse nel suo libro di memorie Esperienze di un magistrato (del 1956). Al termine di quasi cinquanta anni di servizio in magistratura scrisse: “E pensino i magistrati che i migliori e più coscienti giudici della loro capacità, della loro laboriosità, della loro educazione, della loro rettitudine, saranno pur sempre gli avvocati, che li possono seguire, talora inavvertitamente, in tutte le loro manifestazioni, meditate e istintive, essendo queste ultime anche meglio indicative”.
Una capacità di osservazione unica
E’ vero: l’ambiente giudiziario di oggi è un altro mondo rispetto a quello degli anni Cinquanta. Basti ricordare che il numero degli avvocati è decuplicato rispetto ad allora. Ed è raddoppiato il numero dei magistrati. Eppure, rimane vera l’intuizione di fondo che Peretti Griva esprimeva nel suo ammonimento. La capacità di osservazione degli avvocati sui magistrati è diffusa ed è comunque superiore a quella di chiunque altro. Nessun altro come loro è capace di osservare i magistrati. Nessun altro, meglio di loro, conosce virtù e vizi di giudici e pubblici ministeri.
Di fronte alla proposta referendaria la magistratura associata è (quasi unanimemente) insorta. Teme infatti che gli avvocati possano, nelle loro valutazioni, riversare la personale ostilità o antipatia verso un magistrato scomodo che, magari il giorno prima, ha dato loro torto in una causa importante. Che possano confondere la funzione pubblica, che verrebbe loro riconosciuta, con il proprio ruolo di parte nei processi. In altre parole: sullo sfondo c’è l’idea che l’avvocato possa essere contiguo al delinquente da loro difeso, attratto nell’orbita culturale di una committenza tanto più prepotente quanto più economicamente forte.
Perché i magistrati hanno paura?
Sarebbe sufficiente rispondere che gli avvocati nei consigli giudiziari sono, comunque, una minoranza. E dunque, se uno di loro portasse in quel consesso un atteggiamento di inimicizia verso un singolo magistrato, sarebbe facilmente battuto. Ma per capire qual è oggi lo spirito del tempo che serpeggia nella magistratura bisogna porsi un’altra domanda. Perché i magistrati hanno paura dell’influenza del “grande avvocato”, che si potrebbe far portatore di interessi della sua potente committenza. E non invece del leader di una corrente della magistratura, che in concreto ha la possibilità di influenzare il consiglio superiore o il consiglio giudiziario. Ben più di un qualunque sia pur autorevole singolo membro laico?
La serenità di giudizio è messa a dura prova
Perché non si teme, ad esempio, che un giudice, che deve emettere una sentenza su un’importante indagine svolta da un pubblico ministero, possa essere influenzato dal fatto che quel pubblico ministero fa parte del consiglio giudiziario che l’indomani deve emettere un parere su un suo avanzamento in carriera? Alcuni osservano: ma il pubblico ministero è un funzionario statale che persegue soltanto la verità. Mentre l’avvocato ha un legame con il cliente che rende più facile l’interferenza dei ruoli. E’ una risposta ingenua. L’esperienza insegna che la passione che può animare un pubblico ministero che pensa di essere portatore di verità, e che veda processualmente respinta la sua tesi, è in grado di scuotere la sua serenità di giudizio non meno del legame professionale che lega l’avvocato al suo assistito.
Siamo sinceri. Al fondo di questa diffidenza, c’è la difficoltà a credere che un avvocato – che normalmente è paladino dell’interesse privato del proprio cliente – assumendo una funzione pubblica possa essere animato da pura passione civile e agire avendo come unico scopo il bene comune. Ancora una volta, ecco riaffiorare l’idea della superiore “virtù civile” del magistrato. E’ l’antica “albagia professionale” dei magistrati di cui Calamandrei parlava settanta anni fa. Una superbia accecante che “si rifiuta di credere che possano esservi avvocati pronti a servir la giustizia per solo amore di essa e non per cupidigia di guadagno”. Non ho mai creduto a questa leggenda.
Non tirare in ballo i principi costituzionali…
Se qualcuno, in buona fede, ci ha creduto in passato, si vada a leggere le conversazioni di Palamara con alcuni dei principali leader associativi della magistratura. E cambierà presto idea. Legga, ad esempio, una chat dell’ottobre 2017 in cui un pubblico ministero di Milano, membro del direttivo dell’A.N.M., conversa con un pubblico ministero eletto al C.S.M. e, parlando di una certa collega giudice che concorre per un incarico direttivo, dice: “Se riuscite a fottere la *** sarebbe un bel colpo”. E, per favore, non si tirino in ballo i principi costituzionali! Uomini come Calamandrei, Mortati, Leone non hanno scritto gli articoli 101-110 della Costituzione per creare un sistema in cui le nomine dei dirigenti potessero essere trattate in questo modo. O in cui i custodi della deontologia dei magistrati si affannassero a cercare biglietti dello stadio per i propri figliuoli.
Essere indipendenti non significa essere irresponsabili
I magistrati, abituati sempre a giudicare (a decidere sulle vite degli altri, sulla loro libertà, sui loro beni, sui loro destini) dovrebbero auspicare, non temere, i giudizi degli avvocati su di loro. Dovrebbero comprendere che, oggi più che mai, il contributo dell’avvocatura alla valutazione della loro professionalità non farebbe che corroborare la loro legittimazione. Perché essere indipendenti non significa essere totalmente irresponsabili. Dovrebbero capire che un sistema in cui un funzionario pubblico che esercita un così terribile potere sui cittadini abbia in tutta la sua vita professionale solo valutazioni espresse dai suoi pari (da lui stesso eletti) – senza che mai a valutarlo siano persone esterne alla corporazione cui appartiene – è un sistema destinato a secernere veleni. Lo “scandalo Palamara” non ha fatto altro che portare alla luce questi veleni.
Negli ultimi trent’anni è stato quasi impossibile esprimere nel dibattito pubblico idee di questo tipo senza essere etichettati come nemici dell’indipendenza della magistratura. Eppure non fu sempre così.
La giustizia è amministrata in nome del popolo
Pensiamo al tema oggetto del referendum. La presenza nei consigli giudiziari di “laici” (non solo avvocati ma anche membri eletti dai consigli provinciali o regionali) è una vecchia proposta della sinistra. Che fu formalizzata la prima volta in un progetto di legge del 1965 (primo firmatario Vittorio Martuscelli, magistrato eletto alla Camera nelle fila del PSI). E poi ripreso, negli anni ’70, da proposte di Magistratura democratica e da studiosi come Vittorio Grevi.
Questa proposta si intrecciava sempre, nella cultura di sinistra e segnatamente in Magistratura democratica, con una riflessione più ampia sulla necessità di un qualche collegamento con la società e con le altre istituzioni democratiche. Un collegamento che, senza intaccare l’indipendenza del magistrato, ne corroborasse la sua legittimazione. E rendesse meno vacuo il principio, sancito nell’articolo 101 della Costituzione, secondo cui “La giustizia è amministrata in nome del popolo”.
Discrezionalità dei magistrati troppo ampie
La domanda sulla legittimazione del nuovo modello di magistrato si sarebbe dovuta imporre in modo ancor più urgente negli anni seguenti, quando sempre più ampie sono diventate le discrezionalità del magistrato. Più ampie quelle del giudice. Chiamato ad applicare una tale molteplicità di fonti (non solo più la legge ordinaria ma la Costituzione, i trattati internazionali, i regolamenti comunitari, le leggi regionali) da farlo ritenere pienamente coinvolto nel processo di formazione del diritto. Ancor più ampie quelle del pubblico ministero nell’organizzazione delle procure, nell’individuazione delle priorità e dunque nel concreto esercizio dell’azione penale.
E invece, la questione scompare dagli orizzonti culturali della magistratura. Sempre più impegnata ad invocare, unitariamente, la propria indipendenza e sempre più infastidita di fronte alle voci che ricordano che essere indipendenti non significa essere irresponsabili. Perché questa chiusura? Certo, non ha giovato il fatto che, a cominciare dagli anni ’80, la “carenza di legittimazione democratica del magistrato” è stata spesso agitata di fronte all’opinione pubblica. Da chi aveva in mente, più che la soluzione del problema, l’intralcio a qualche fastidioso processo a carico di qualche amico. Ma la strumentalizzazione del problema da parte di alcuni non cancella l’esistenza del problema.
Un clima asfittico, autoreferenziale e chiuso a apporti esterni
Il clima culturale è così diventato sempre più asfittico, autoreferenziale, chiuso agli apporti esterni. L’atteggiamento odierno di fronte al tema del ruolo degli avvocati nei consigli giudiziari è soltanto una spia di quella che il Presidente Mattarella ha chiamato “modestia etica” che traspare dagli scandali degli ultimi due anni. Chi ha davvero a cuore la giustizia dovrebbe preoccuparsi. E cominciare ad occuparsene. La giustizia è una cosa troppo importante per lasciarla in mano soltanto ai magistrati.
Paolo Borgna