“Valditara, o del progetto eversivo di una scuola non più democratica. Il neo Ministro della pubblica istruzione ha in mente una scuola da irregimentare tramite il randello del merito”. Si tratta del titolo e del sommario di un articolo pubblicato il 3 novembre scorso da Marina Boscaino su micromega.net. Accompagnati, come foto “d’apertura”, da un primo piano di Giuseppe Valditara.
Ammetto di non essere riuscito a leggere tutto il lungo testo della collega. Nonostante ne apprezzi la professionalità, trovo la sua prosa indigesta. Ma, da uomo di comunicazione, ritengo che non sia poi così importante. Giusto o sbagliato che sia, titolo, sommario e foto sono le sole cose notate dalla maggior parte dei lettori di una testata, quelle che veicolano un messaggio.
Una scuola che promuove il merito è antidemocratica
E qui il messaggio è chiaro: una scuola che promuove il merito è antidemocratica. E, perché no, anche “fascista”, visto che usa il randello, che fa rima con manganello. Metto subito in chiaro che non condivido nulla di tutto ciò. Premiare i più meritevoli è cosa buona e giusta. Giorgia Meloni nei suoi discorsi da Presidente del consiglio, si avvale spesso del sostantivo “merito” come motivo ispiratore della sua linea politica. La prima mossa, a forte valore simbolico, è stata effettuata, appunto, nell’ambito della scuola, con il cambiamento della denominazione del “Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca”, forse più noto con la sigla MIUR, in “Ministero dell’Istruzione e del Merito” (lo chiameranno Mim?). Da qui si sono scatenate accese polemiche, di cui l’articolo di Marina Boscaino è solo uno dei tanti esempi.
“Il merito non ha alcun valore”…
Ho già espresso la mia posizione sul dilemma merito si, merito no. Come principio astratto mi va bene portare la meritocrazia nelle scuole, ma, francamente non credo che premiare gli studenti più meritevoli (cercando comunque di aiutare gli altri) serva più che tanto, se non si porta la meritocrazia anche nella vita reale. Forse il Premio Nobel 2001 per l’economia Joseph Stiglitz, non ha mai pronunciato alla lettera la frase che gli viene attribuita “Il 90% di quelli che nascono poveri, muoiono poveri, per quanto intelligenti e laboriosi possano essere, e il 90% di quelli che nascono ricchi muoiono ricchi, per quanto idioti o fannulloni possano essere. Da ciò si deduce che il merito non ha alcun valore”.
Nel calcio vincono (quasi) sempre le squadre più ricche
Ma, leggendo i suoi studi sulle disuguaglianze, risulterebbe più che verosimile se l’avesse detta. Che la famiglia di provenienza e le relazioni, quando non addirittura le lobby, contino più del merito è una scuola di pensiero cui mi sento di aderire. Nell’altro articolo di questa puntata di In/contro, il nostro editore Riccardo Rossotto usa la metafora dei cento metri piani per dire che tutti devono avere le stesse possibilità alla partenza, ma poi la gara fa selezione premiando i meriti (sportivi, nella metafora). Per me è più realistica la metafora del campionato di calcio. Le 20 squadre partono tutte appaiate a zero punti. Ma ai primi posti si piazzano quasi sempre le più ricche, quelle che hanno potuto permettersi le migliori campagne acquisti. Per non dire quelle più influenti sugli arbitri e, in generale, sul sistema calcio.
… Quel certo nepotismo che rema contro il merito
È chiaro (e anche intrinseco nella natura umana) che chi ha un’attività tenda a inserirvi nei posti di comando il figlio, anche se asino patentato, piuttosto che un estraneo, che pure si presenta con un curriculum scolastico di primissima scelta.
In fondo, uno della propria “roba”, fa quello che vuole e la famiglia è la famiglia. Il fatto è che questa forma di nepotismo è diffusa anche nella pubblica amministrazione, che dovrebbe essere “roba di tutti”. Scrive Luca Del Vecchio sul Sole 24 ore del 25 luglio scorso: il “principio della continuità generazionale (viene) applicato, a quanto pare, con buono zelo anche nella Pubblica Amministrazione (P. A) italiana. Un luogo comune privo di fondamento? Non si direbbe affatto. Esso è, piuttosto, uno dei rari cliché convalidati empiricamente ed esaminati da una mole di letteratura scientifica che converge verso un’unica conclusione: il fenomeno del nepotismo è endemico nell’amministrazione pubblica del nostro Paese”,
Lo studio più citato nell’articolo, (Intergenerational transfers of public sector jobs: a shred of evidence on nepotism), condotto da Vincenzo Scoppa, elabora un modello statistico sulla base di dati tratti dal Survey of Household Income and Wealth, indagine condotta a cadenza biennale dalla Banca d’Italia su un campione di circa 8.000 famiglie e 20.000 individui. Emerge che, nonostante la Costituzione stabilisca l’obbligo di pubblico concorso per garantire oggettività e trasparenza nelle assunzioni dell’Amministrazione pubblica (articolo 97), essere “figli di” aiuti non poco. A parità di requisiti la possibilità di essere assunto di un candidato il cui papà lavora nella P. A. aumenta del 44%.
A caccia di merito nella Pubblica Amministrazione
Se è vero che il grado di istruzione è una variabile importante per trovare un posto nel “pubblico”, è altrettanto vero che un papà dipendente pubblico non è meno importante. Dall’indagine risulta che un diplomato figlio di chi lavora nella P. A. ha le stesse possibilità di chi non ha un padre dipendente pubblico e possiede una laurea triennale. Insomma 3 anni di università, magari caratterizzati da massimo impegno e risultati, valgono come essere figli di un impiegato pubblico. E non manca un dato paradossale: tra i figli di dipendenti pubblici riescono a entrare nella P. A. più facilmente, a parità di studi, quelli che hanno ottenuto i risultati più scadenti. Un paradosso che l’autore spiega così: i genitori dei ragazzi meno dotati (ndr: o più fannulloni), si danno molto da fare per trovare un posto sicuro ai figli che, fuori dal grembo protettivo della pubblica amministrazione, avrebbero vita dura.
Appare evidente, alla luce di questa ricerca (una delle tante da cui emerge come nepotismo e relazioni contino molto più del merito) che introdurre la meritocrazia nell’istruzione non basta, se non si interviene anche nella società. Una situazione facilmente riscontrabile nella vita di tutti i giorni, il che è fonte di demotivazione. Che diversi laureati, anche a pieni voti, trovino posto solo come rider o in un call center, purtroppo non è un luogo comune. E non di rado vedono loro compagni di studi, un po’ pelandroni, trovare un lavoro interessante grazie alle relazioni famigliari.
Il pesce puzza dalla testa
E il mondo politico è intriso di nepotismo. Negli Stati Uniti, sedicente tempio della meritocrazia, abbiamo avuto come presidenti Bush padre e Bush figlio (con un altro figlio diventato governatore di uno Stato chiave come la Florida) mentre la moglie di un altro presidente, Hillary è arrivata a un pelo dalla Casa Bianca. Naturalmente, nonostante il suo credo femminista, si presentava non con il suo anonimo cognome Rodham, bensì con quello del marito Clinton. Sembrava che dovesse scendere in politica anche Michelle Obama. Ma la ex first lady (almeno finora) ha compreso che essere candidata perché moglie di un ex presidente (altrimenti, chi avrebbe pensato di proporla?) sarebbe stato inopportuno e per fortuna ha lasciato perdere. A livello locale, Andrew Cuomo, governatore dello Stato di New York dal 2011 al 2021, è figlio di Mario, che ha detenuto la stessa carica dal 1983 al 1994. Per non farsi mancare nulla, sua cognata è una Kennedy.
Le dinastie italiane hanno chiuso la porta al merito
In Italia nel PRI, il partito più austero e moralista della Prima Repubblica, Giorgio La Malfa, pur non essendo considerato dai più come uno statista di primo livello, ha mantenuto la segreteria per 24 anni. Non sono solo i maligni a sostenere che se non fosse figlio di Ugo, il più famoso e influente leader dei repubblicani, difficilmente avrebbe scalato le gerarchie del Partito. Dinastie si trovano anche a destra. Dei tre figli di Antonino La Russa, senatore del MSI dal 1972 al 1992, il più famoso, Ignazio è Presidente del Senato, Vincenzo, scomparso un anno fa, è stato parlamentare democristiano, mentre Romano ricopre, per la seconda volta, la carica di assessore in Regione Lombardia.
Ma il caso più eclatante e contraddittorio, è quello di Berlusconi. Mentre come imprenditore ha fatto suo il motto meritocratico di Napoleone “Nello zaino di ogni soldato si nasconde il bastone di maresciallo”, in politica ha riempito il Parlamento di amici. E soprattutto di amiche. Presenti più volte come ministri nei suoi governi. A dire il vero, non solo nei suoi. C’è n’erano un paio anche nel Governo Draghi.
Milo Goj