Le democrazie moderne nascono con l’Illuminismo francese ed inglese, esportato poi alla fine del Settecento nella giovane federazione degli Stati Uniti d’America. Uno dei fondamenti della nuova visione dello Stato, dopo tanti anni di monarchie assolute, consisteva proprio nella divisione dei poteri, immaginata, descritta e formalizzata dal grande filosofo francese Montesquieu.
In base a tale pensiero, lo Stato moderno e liberale si doveva fondare su una divisione tra i tre suoi poteri principali: il potere legislativo, il potere esecutivo, il potere giudiziario. Proprio per evitare il ripetersi di concentrazioni di potere che potevano ripristinare monarchia assolute, tirannidi oppure comunque dei regimi, Montesquieu ispirò e battezzò una nuova governance delle nazioni in cui il potere legislativo (normalmente eletto dal popolo) non doveva essere contaminato in modo non trasparente dal potere esecutivo (normalmente votato dalla maggioranza di turno del parlamento).
Infine, il potere giudiziario e cioè il controllo sulla legalità dei comportamenti dei cittadini di uno Stato, doveva essere autonomo ed indipendente senza la possibilità di contaminazioni da parte dell’esecutivo. Quest’ultimo principio è stato raccolto dalla nostra Costituzione che ne sottolinea l’importanza dedicandoci alcuni specifici articoli.L’articolo 104 che recita: la magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere. Il Consiglio Superiore della Magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica. Ne fanno parte di diritto il Primo Presidente e il Procuratore Generale della Corte di Cassazione.
Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo 15 anni di esercizio. Il Consiglio elegge un Vicepresidente fra i componenti designati dal Parlamento. I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili. Non possono finché sono in carriera essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale.
L’articolo 105 della Costituzione prevede che tutti gli atti che regolamentano l’ordinamento giudiziario come assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari, siano demandati esclusivamente al Consiglio Superiore della Magistratura. Sempre a maggior garanzia dell’indipendenza dei magistrati, l’articolo 106 prevede che i giudici siano nominati a seguito di un concorso. Fissati tali principi, cos’è successo nel nostro Paese per dar vita a questo conflitto, negli ultimi trent’anni quasi permanente, tra il governo, il Consiglio Superiore della Magistratura e le varie associazioni dei magistrati?
Mi ha aiutato in questa sintetica ricostruzione storica, una pregevole inchiesta del quotidiano online “Il dubbio”, edito dal Consiglio Nazionale Forense firmata da Paolo Delgado. Almeno fino agli anni ‘70 la nostra magistratura veniva considerata molto “allineata” agli indirizzi politici esistenti: salvo qualche sporadico caso, non si registrano scontri pubblici fra il governo e la magistratura. La situazione cambia con l’inizio degli anni di piombo, quelli del terrorismo rosso o nero. I giudici avevano preso in mano la situazione e al termine di quel drammatico periodo per il nostro Paese, manifestarono, nella sostanza, la loro intenzione, secondo Delgado, di non voler tornare alla situazione pregressa. Volevano il rispetto del loro ruolo e un rapporto con la politica non di sudditanza. Anzi!
Nel 1985 avevano censurato gli attacchi di Craxi, allora Presidente del Consiglio, nei confronti dei magistrati di Roma e Milano per l’omicidio del giornalista Walter Tobagi. Proprio in quell’anno, il neopresidente della Repubblica, Francesco Cossiga, pochi mesi dopo la sua elezione, assunse una posizione molto precisa sulla polemica scatenata da Craxi: l’unico organo istituzionale che potesse esprimersi sulle condotte del Presidente del Consiglio era il Parlamento – disse Cossiga – non il CSM. I membri laici del CSM si schierarono naturalmente col Presidente della Repubblica mentre quelli togati, per protesta si dimisero… salvo poi revocare le dimissioni dopo un chiarimento con lo stesso Presidente Cossiga.
Ma il braccio di ferro era ormai in atto e proseguì, esplodendo di nuovo, nel 1991, quando il CSM convocò una propria riunione senza consultare il suo Presidente e cioè il Presidente della Repubblica italiana. Cossiga dichiarò immediatamente illegittima la convocazione e vietò formalmente di tenere tale riunione. Il CSM decise di confermare la riunione e il suo ordine del giorno: la guerra era dichiarata. Minacciò di far arrestare tutti i membri che alla fine, sotto pressione, accettarono di annullare la convocazione. Secondo Delgado fu l’ultima vittoria della politica sulla magistratura.
Ma proseguiamo con la veloce ricostruzione storica di questo braccio di ferro. Siamo in piena Tangentopoli. Da pochi giorni si erano avuti i risultati finali del referendum sulla legge elettorale che aveva profondamente modificato i razionali del modello proporzionale introducendo dei meccanismi più vicini al sistema maggioritario. I partiti della loro prima Repubblica erano costretti a rivedere il loro ruolo e le loro regole di partecipazione al tenzone politico.
Stava nascendo quel governo di salute pubblica retto dall’ex governatore della Banca d’Italia, Azeglio Ciampi che riportò il Paese sia dal punto di vista istituzionale sia dal punto di vista economico, soprattutto, sui giusti binari. Il 26 aprile di quel 1993 la Camera dei deputati respinse l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi. Quel voto rappresentò l’epitaffio della prima Repubblica. L’incertezza e lo smarrimento dei partiti, la forte reazione popolare di contestazione di quella scelta del Parlamento rivelarono quanto la politica fosse caduta in basso nel vissuto dei suoi cittadini. Quel 26 aprile del 1993 è una data importante nella storia della nostra Repubblica perché da quel giorno nulla fu più come prima. Dopo appena 14 mesi da quella data, al governo non c’era più Bettino Craxi ma Silvio Berlusconi.
Il nuovo Presidente del Consiglio riprese in mano subito il dossier “giustizia” varando un decreto che limitava drasticamente l’uso della custodia cautelare, la cosiddetta “arma impropria” utilizzata dal team dei magistrati milanesi che gestivano l’inchiesta “Mani pulite” per strappare confessioni e denunce dalle varie parti in causa. I magistrati della procura di Milano scesero in piazza e attraverso la voce di Antonio Di Pietro gridarono di non essere più in condizione di poter fare il loro lavoro. Si dimisero e in diretta di fronte alle televisioni si abbracciarono commossi. Berlusconi dovette prenderne atto chiedendo al suo Ministro di Grazia e Giustizia liberale, Alfredo Biondi, di modificare il decreto contestato. Ma non era finita.
Il colpo di grazia arrivò il 22 novembre sempre del 1993: proprio la mattina in cui il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi stava per tenere a Napoli una riunione internazionale con i leader di molti paesi del mondo sul tema della criminalità, il Corriere della Sera, in prima pagina, dava la notizia che la procura di Milano aveva emesso un avviso di garanzia proprio a carico del cavaliere. Berlusconi che dichiarò di essere venuto a conoscenza di tale atto soltanto attraverso il quotidiano milanese, andò su tutte le furie ma quel passaggio non gli evitò la caduta del suo governo.
Questa carrellata sui momenti topici della genesi dello scontro fra l’esecutivo e il potere giudiziario prosegue con un episodio avvenuto anni dopo, durante il governo Prodi, succeduto nel ‘96 a quello di Berlusconi. In quella stagione politica si cercò di dar vita ad una riforma della Costituzione condivisa tra maggioranza e opposizione: la commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema andò molto vicino ad un risultato positivo. Il progetto fallì proprio quando l’opposizione insistette per riformare anche le parti della Costituzione che riguardavano la magistratura, quegli articoli 104 e 105 che ho citato all’inizio di questa narrazione. I togati si opposero ovviamente a tale prospettazione e la loro Pds non se la sentì di procedere nel senso proposto dai partiti non di governo.
La Bicamerale finì con un nulla di fatto e così la riforma bipartisan della Costituzione ancora una volta non si concluse positivamente. Altro passaggio importante di questa storia avviene nel 2002, quando Berlusconi è tornato al governo. L’ex capo del pool di “Mani pulite”, Francesco Saverio Borrelli, inaugurando l’anno giudiziario, fu durissimo nell’esprimere la sua posizione: “resistere, resistere, resistere come su una irrinunciabile linea del Piave”. Si riferiva ovviamente a tutte le riforme di cui in quei mesi si parlava che avevano l’obiettivo di restringere il ruolo e i poteri della magistratura. Ma quel resistere si riferiva anche ai continui rinvii dei processi contro Berlusconi che rappresentavano “un oltraggio alla giustizia”.
Il lodo Schifani, la legge Cirami, la legge ex Cirielli, la legge Gasparri, il lodo Alfano sono alcune delle puntate di un ventennio caratterizzato da una pioggia continua di accuse e imputazioni da un lato e da manovre dilatorie e leggi cucite a misura dei guai giudiziari di Berlusconi dall’altro: un disastro per l’immagine del Paese nel mondo e della giustizia in Italia.
La prima condanna contro Berlusconi arrivò nel 2013 e gli costò la cacciata dal Senato oltre ad una pena scontata prestando lavori socialmente utili. Ma lo scontro tra la politica e la magistratura è proseguito anche nel dopo Berlusconi, senza il cavaliere al centro della battaglia. Durante il governo Conte I si aprì il confronto giudiziario tra le procure e il Ministro degli Interni Matteo Salvini sul blocco delle navi ONG, quello scontro che ha portato al processo in corso proprio contro l’ex Ministro degli Interni. Ma anche Draghi scontò l’insurrezione dei giudici contro la riforma Cartabia.
Siamo arrivati alla nostra triste e tragica attualità. Con il governo Meloni il confronto si è di nuovo incendiato e ora il fuoco divampa e sembra travolgere tutto senza grandi speranze di spegnimento. “Quello che si può dire – scrive Paolo Delgado al termine del suo contributo sul dubbio – è che se uno scontro tra istituzioni e tra poteri dello Stato prosegue per tre decenni senza che si riesca a risolverlo fissando punti fermi e delineando paletti a circoscrivere nettamente le aree di competenza, a perdere è il sistema. Quel sistema di cui fanno parte sia i giudici che i politici”.
Come dargli torto? Personalmente ho sempre creduto che le istituzioni non siano degli organi astratti, gestiti da marziani provenienti da un altro pianeta. Penso e credo che siano rappresentate dagli esseri umani, buoni o meno buoni, con le loro idee e le loro visioni politiche e sociali. Ho sentito spesso, con le mie orecchie, sia magistrati sia politici dotati di quel valore che noi stiamo sottostimando e che è rappresentato dal cosiddetto buon senso, e mi hanno confermato il loro auspicio a che si giunga finalmente ad un accordo, non di basso livello, ma di alto compromesso istituzionale.
Probabilmente, sarebbe opportuno che molti dei rappresentanti sia della magistratura sia della classe politica che finora non si sono occupati direttamente di questo problema, assumano un ruolo rilevante nelle reciproche associazioni. Sono convinto, infatti, che ci sia uno spazio per riprendere in mano le fila di questo tema annoso e mai risolto, tessendo una negoziazione che, pur rispettando i principi espressi dalla nostra bellissima costituzione, possa adeguarli ad un nuovo equilibrio tra i poteri dello Stato, rigorosamente ancorato a quella straordinaria intuizione di Montesquieu: una visione dello stato moderno, liberale e democratico che enfatizzi la collaborazione fra i vari poteri fermo restando la loro assoluta e non negoziabile indipendenza e autonomia.
Riccardo Rossotto