Roberto Giardina è una firma storica del giornalismo italiano, da trent’anni ormai corrispondente da Berlino del Quotidiano Nazionale e commentatore, con una sua rubrica quotidiana, di Italia Oggi. Ma è anche prolifico scrittore con all’attivo diversi romanzi e saggi, i primi con affondi storici legati a fatti curiosi, rimossi o sottaciuti come, ad esempio, “PFIFF”, una storia operaia ambientata nella Torino degli anni Sessanta, oppure di attualità come il reportage “Attraverso la Francia”, che raccoglie impressioni e incontri di un Paese che Giardina ha attraversato in lungo e largo. E romanzi.

Ora è la volta de “L’estate che durò una vita”, sottotitolo “Lampedusa 1954”, edito da Torri del Vento, che credo essere il suo testo più intimo e autobiografico. Ce lo lasciano credere alcune considerazioni: il fatto che Giardina sia nato a Palermo, e che poi, con la famiglia si sia trasferito a Roma, da dove, nel 1954, partì solitario, a 14 anni ancora non compiuti, per Lampedusa, dove abitava il nonno, papà della mamma. Leggiamo: “La madre gli parlava dell’isola, quando era piccolo, come una favola che si trasformò in un racconto mentre cresceva. Gli raccontava di quando ogni due anni potevano andare in vacanza. ‘Un lungo viaggio per mare, prima da Tripoli a Palermo, poi in treno attraverso la Sicilia fino a Porto Empedocle, e ancora una nave per Lampedusa. La prima volta a due anni per farmi battezzare’.”

Nel romanzo poi si snocciolano i motivi di questo legame sia con Lampedusa (il bisnonno trasferito lì come maestro elementare con l’idea di starci un solo anno e poi, invece, ci è rimasto per una vita), sia con la Libia (il nonno funzionario in Libia). Era, ed è ancora, nel destino di Roberto Giardina quello di vivere oltre i confini.

Roberto Giardina, stavolta il tuo viaggio lo hai fatto dentro i tuoi ricordi adolescenziali. Non ti sei mai spinto, prima, così lontano. Credo sia il tuo libro più autobiografico. Sbaglio?

No, ma direi personale non del tutto autobiografico, perché tutto è vero ma non tutto autentico. Come sai anche tu, che hai scritto romanzi affascinanti sui tuoi ricordi, i libri autobiografici possono diventare una trappola. Bisogna stare in guardia, facile perdere il controllo.

1954. Un azzardo quello dei tuoi genitori di lasciare andare solo, in viaggio, da Roma a Lampedusa, un ragazzo di neppure 14 anni, con in tasca la paghetta dei pochi mesi previsti per quell’estate. E all’epoca forse eri ancora figlio unico. É nato lì l’inviato? Accenni anche nel libro ad altri viaggi, di lavoro in questo caso, solitari…

Ero un figlio unico con due fratelli, il secondo ha cinque anni meno di me, l’ultimo nove anni, non giocammo mai insieme. Oggi, con il passare del tempo, abbiamo tutti la stessa età.   Fui io a chiedere di partire, con l’arroganza di un ragazzo per me fu normale. Non me ne resi conto, finché decenni dopo, lo raccontai a Fernanda, mia moglie, e lei commentò che tanto normale non era. Ed ebbi il primo impulso di raccontare quel viaggio. Fu mia madre che amava il mare, e che m’insegnò a nuotare quando avevo due anni, a convincere mio padre, che era apprensivo. E poi quand’era anziana, e si perdeva nei ricordi, mi raccontò qualcosa di taciuto, e compresi che forse ero stato un messaggero che ignorava il messaggio. Un piccolo segreto di famiglia, come in una ogni famiglia del sud. In quell’estate, imparai a vivere da solo, come capita spesso nel nostro mestiere, si trascorrono ore, giorni, in una camera d’albergo, in attesa di una telefonata. Si viaggia da soli. Ma non ho mai sofferto di solitudine. E ho imparato a capire il mio corpo, a ascoltare i segnali che ti manda. E il giovane protagonista ha il vizio di chiedere perché.

Devo dire che il tuo racconto ha forti accenti narrativi che mi hanno riportato alle pagine dei grandi romanzi d’avventura. Il racconto dell’arrivo a Porto Empedocle e il viaggio a bordo del piroscafo baltico per Lampedusa, col cameriere ubriaco e alcune descrizioni di mare e nave, mi ha ricordato alcune pagine di “Capitani coraggiosi”. Lo scrittore ha preso il posto del giornalista, anche se, più volte, non dimentichi di esserlo? Ad esempio, di quando il giornale ti mandò in Libia e tu volesti vedere il film “Il leone del deserto”, in Italia censurato…

Ti ringrazio per il paragone, non avevo pensato al romanzo di Kipling. Le letture ti rimangono dentro, anche quando credi di averle dimenticate. Sono diventato giornalista perché non so far altro che scrivere, anche se scrivere per un giornale è diverso che scrivere un libro, ma si impara che ogni parola è essenziale, e il lettore va rispettato.  Si rimane cronisti, sempre, anche da inviati, ed io ho dei difetti, sono timido, ho rispetto per gli altri, il mio unico vanto è di non aver mai scritto quel che non penso. Non bisogna essere eroici, al peggio si rischia di non far carriera, ma che importa? Andai in Libia, una settimana dopo l’attentato alle Due Torri a New York, non avevo detto di essere giornalista, dissi di essere professore, un turista, ma tutti avevano paura in quei giorni, e ci trovammo solo in tre. Volli vedere quel film, la storia del capo dei ribelli Omar el Mukhtar, che mia madre mi raccontava da bambino come una favola. Lei era nata a Tripoli, e insieme con i suoi fratelli, stava dalla parte dei ribelli. A Bengasi cercai e trovai la casa al porto dove aveva vissuto da ragazza. Chissà se le bombe l’hanno risparmiata.

Gli incontri sull’isola mi hanno invece ricordato Ercole Patti, a cominciare dall’incipit erotico, ma poi anche tutte le cugine, o quei personaggi come Donna Gaetana, che ha perso il marito pescatore in mare e non mangia pesce perché si sono cibati del corpo del marito o il pittore dell’isola… insomma, un viaggio all’indietro per rivivere i sapori, i colori, i profumi di un mondo che non c’è più, visto che la Lampedusa di oggi è molto diversa, e che ci manchi dal 1973. A Imbriacola, dove il nonno aveva la casa, adesso ci sono gli hotspot dei migranti, per il resto il turismo ha preso il posto dei vecchi mestieri… Il libro, con la sua nostalgia, vuol esprimere anche questo?

È vero, parlo di me stesso, ma senza nostalgia, non scrivo com’era bello il passato. La realtà è vista con gli occhi di quel ragazzo protagonista, che cerco di rispettare, di non manipolare. Ci sono pochi flashes future, sprazzi nel futuro, perché quell’estate segnò il protagonista per la vita.  Avevo timore di tornare, ma il mio editore, Luigi Di Salvo, che è diventato mio amico, ha voluto presentare il libro a Lampedusa, in maggio. Sono andato alla ricerca della casa di mio nonno lontana dal mare, e non riuscivo a trovarla, poi infine l’ho riconosciuta, in rovina. Al posto della vigna di mio nonno, c’è il parcheggio dei vigili del fuoco. Mi hanno fotografato mentre mi aggiro tra le rovine, indossavo una camicia grigia, come i pantaloni, e sotto il sole forte, nella foto sembro vestito di bianco. Da lontano, nella foto del cellulare, mi aggiro come un fantasma nel passato. È un’immagine kitsch che non scriverei mai, ma è quel ho provato, e posso confidarlo.

–  A Lampedusa hai ancora parenti, cugine e cugini, per vero o per onore, come ti aveva detto il nonno? Hai mantenuto il contatto con qualcuno di essi? Eventualmente, come vivono la Lampedusa salita improvvisamente alle cronache per i suoi tanti sbarchi di migranti? E tu? O davvero la Lampedusa di quell’estate del 1954 sarà per tutta una vita?

Ho ritrovato solo una cugina, lontana, ma quanto non so, e non importa. La sorella del giovane pittore. Nel libro gli cambio nome perché gli attribuisco pensieri, e cerco di rispettarlo. Ma in Sicilia i legami di famiglia, e di amicizia, durano al passare del tempo e della lontananza. Ci siamo ritrovati senza problemi. Ho visto arrivare un gruppo di fuggiaschi, vicino alla spiaggia dove nuotai con mia figlia di otto anni. E sono stato sorpreso da un fortunale, con raffiche di vento fortissime, pioggia torrenziale, e dopo un quarto d’ora tutto è finito. Ma se ti sorprende su un gommone in alto mare, rischi di annegare. L’isola è cambiata, ma la sua anima no.

Diego Zandel

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