Sul tema smart working le big tech sono state le prime a prendere posizione. Nel maggio 2020, Twitter ha annunciato ai propri dipendenti la possibilità di continuare a lavorare in smart working anche una volta finita l’emergenza Covid-19.
Facebook ha esteso la possibilità di lavorare da remoto dichiarando di credere che “il modo in cui si lavora conta più di dove lo si fa”. A contrario, Goldman Sachs o ancora Morgan Stanley hanno giudicato il ritorno in presenza indispensabile. Tante altre realtà hanno, invece, scelto una via di mezzo.
Google, per esempio, ha riaperto i propri uffici, stabilendo che il rientro si sarebbe fatto su base volontaria, mentre Amazon ha deciso che il proprio personale sarebbe rientrato in presenza almeno 3 giorni a settimana. In Apple è bastato annunciare il ritorno in presenza per almeno tre giorni alla settimana, per spingere circa 80 lavoratori a firmare una petizione a sostegno dello smart working…
Un dilemma mondiale con opinioni contrastanti
L’argomento è senza dubbio molto dibattuto. Dà luogo a divergenze, può essere anche fonte di rotture culturali, organizzative e manageriali, genera spesso tensioni tra dipendenti e governance, opposizioni nell’opinione con le sue pratiche, i suoi impatti.
Per alcuni, lo smart working è solo un nuovo modo di alienare i lavoratori. Per altri rappresenterebbe una liberazione. Ma lavorare in modalità agile ha davvero senso? Consolidare tale modalità di lavoro dopo la fine dell’emergenza sanitaria è davvero una buona idea?
Tentiamo una riflessione sulla trasformazione del lavoro in atto, uscendo dai luoghi comuni e dal contesto sanitario attuale. Per farlo prendiamo lo spunto dal confronto quotidiano tra noi professionisti e le realtà presso le quali interveniamo. Sappiamo che quello avviato nel contesto pandemico non è il vero smart working ma soprattutto abbiamo capito che lavorare da remoto si può fare. Può funzionare.
Gli studi statistici condotti presso lavoratori in smart working anche prima del contesto attuale sono numerosi*. Ciò che emerge in modo piuttosto ricorrente e nella stragrande maggioranza delle persone interrogate è che adottando una modalità di lavoro agile si guadagna in efficienza.
Prima di tutto per via del tempo guadagnato dai lavoratori, che induce evidenti vantaggi in termini di qualità di vita. Non dovendo più perdere diversi minuti (a volte ore) negli spostamenti quotidiani casa-lavoro, le persone possono investire questo tempo in diversi tipi di attività personali (chi ne approfitta per fare sport, chi per stare di più in famiglia…)** .
Meno assenze e malattie con lo smart working
Le ricerche hanno dimostrato che la maggiore produttività dei lavoratori agili dipende dalla diminuzione delle assenze per malattia. Generalmente, si continua a lavorare da casa anche se si è ammalati – e non si potrebbe -, mentre se il dipendente avesse dovuto recarsi in ufficio, non avrebbe lavorato del tutto.
Inoltre, in smart working (ultimamente più che altro in home working) i lavoratori sarebbero più concentrati. Lavorando fuori dall’ufficio, ci sono di fatto meno distrazioni e soprattutto non c’è più bisogno di preoccuparsi di come si è visti dai superiori e dai colleghi.
La teatralità legata alla presenza in ufficio scompare, siamo soli davanti al nostro computer… Non essendo più sotto gli occhi di tutti, non essendo più impegnati e preoccupati dall’essere visti, siamo liberi di dedicare tutta la nostra attenzione al lavoro che svolgiamo*** .
Cambiando la modalità spazio-temporale, cambia automaticamente l’approccio al lavoro. Anche in termini di valutazione dei lavoratori, ciò che conta non è più ciò che appare, ma la sostanza. Da qui l’opportunità di ripensare anche il sistema retributivo dei lavoratori in smart working, legando maggiormente la remunerazione ad un sistema di obiettivi.
Giudizio positivo per i lavoratori che usano lo smart working
Questo potrebbe essere l’aspetto più importante e interessante generato dallo smart working. In effetti, lavorando in modalità agile, le persone hanno potuto (ri)mettere il lavoro al suo posto, di (ri)farne uno degli aspetti della vita di ogni individuo (e conseguentemente (ri)dare un senso ad esso).
La vita non è più quello che resta una volta che abbiamo finito di lavorare ma il lavoro è una componente di essa, importante, certo, e spesso fonte di realizzazione personale, ma non è più il suo fine ultimo. In questo senso, con il lavoro agile si giungerebbe ad una vera e propria liberazione psicologica.
Questo è un aspetto fondamentale che emerge tra le nuove generazioni di lavoratori che tendono a privilegiare le aziende e le funzioni che permettono un corretto bilanciamento vita-lavoro. E spiegherebbe anche, secondo gli specialisti, l’onda di dimissioni che ha toccato recentemente gli Stati Uniti.
L’impellente necessità di dare un senso al proprio lavoro, condivisa peraltro da sempre più lavoratori, è un aspetto da non sottovalutare in particolare per le aziende che vogliono attirare talenti o conservare risorse interessanti.
Si lavora di più ma la produttività resta la stessa
In effetti, non poche sono le obiezioni quando si tratta di decidere se consolidare o meno tale modalità di lavoro per il periodo post-pandemico. Alcuni si spingono addirittura nel dire che lo smartworking sarebbe una nuova modalità di alienazione dei lavoratori.
Il rovescio della medaglia c’è. Alcune ricerche dipingono un quadro diverso rispetto a quanto finora indicato. Uno studio condotto su oltre 10.000 dipendenti di un’azienda tecnologica asiatica tra aprile 2019 e agosto 2020 (quindi in un contesto pandemico)**** ha evidenziato che il numero delle ore lavorate dai dipendenti in smart working era superiore rispetto a prima della pandemia.
Inoltre, in smart working, sarebbe aumentato anche il lavoro al di fuori del normale orario. Nel caso studiato, questo sforzo extra non si era però tradotto in un aumento della produttività.
Ma il boss ha ancora bisogno di controllare
La ricerca ha evidenziato che nonostante l’orario di lavoro più lungo, i dipendenti avevano avuto meno tempo per concentrarsi rispetto a prima della pandemia. Questo perché tutto il loro tempo libero (o liberato, dal guadagno di tempo conseguito dal non doversi più recare in ufficio) era stato occupato da riunioni.
Ciò si spiega con il fatto che i manager potrebbero essere stati meno sicuri dell’impegno del loro team e potrebbero aver voluto organizzare più riunioni per verificarlo. O ancora – per essere provocatori (!) – perché i manager avrebbero sentito la necessità di dover convalidare la propria esistenza quando non sono in ufficio. In realtà, il motivo è spesso più semplice.
La maggiore necessità di riunioni è il risultato della maggiore difficoltà nel coordinare il personale con la modalità di lavoro da remoto. In questo senso, un investimento nella formazione dei manager alla gestione di un team virtuale è essenziale.
Può rafforzare le disuguaglianze?
Prima di tutto, un effetto negativo importante è quello della potenziale marginalizzazione dei lavoratori in smart working rispetto ai colleghi che “si fanno vedere” in ufficio. Le performance sarebbero meno notate se si lavora a distanza e ciò inciderebbe con una minor probabilità per questi lavoratori di vedersi riconoscere delle promozioni.
Inoltre, sebbene alcune donne dicano di aver tratto beneficio dalla flessibilità offerta dallo smart working, perché ciò ha permesso loro di essere più presenti con i figli e la famiglia in generale, il lavoro a distanza sembrerebbe invece confortare il gender gap.
Nelle coppie con bambini piccoli, sono le donne a chiedere maggiormente di consolidare la modalità agile*****. E sappiamo bene che nelle condizioni straordinarie in cui abbiamo lavorato durante la pandemia, coloro che avevano figli hanno incontrato più difficoltà a portare avanti il proprio lavoro.
Quello che conta è trovare un giusto equilibrio
Il tema più spinoso rimane ad ogni modo quello relativo al benessere dei lavoratori, che non dovrebbe essere diminuito se si adotta una modalità di lavoro agile. Il benessere fisico parte necessariamente dalla possibilità di poter avere una postazione di lavoro corretta e adeguata. Ma anche il benessere psicologico è al centro delle attenzioni, in quanto i rapporti virtuali potrebbero potenzialmente generare sofferenza.
Ad ogni buon conto, il benessere dei dipendenti, sia presenti in ufficio sia operanti da remoto, è un aspetto fondamentale, per l’individuo, per il team, ma anche per la collettività aziendale.
E’ un tema di confronto che necessità il coinvolgimento di tutte le parti sociali. E inoltre la condivisione di un’apertura mentale al cambiamento, trovare il corretto inquadramento del lavoro agile è sicuramente possibile.
La trasformazione del lavoro non è più evitabile, sta a noi afferrare le opportunità che nascono dall’attuale crisi e farne un punto di forza per il futuro. In primis per un lavoro migliore.
Avv. Line Gaston – Avv. Piergiorgio Bonacossa
Note di lettura
* Stanford University on March 3, 2015 “Does working from home work? Evidence from a Chinese experiment”, Nicholas Bloom, James Liang, John Roberts, Zhichun Jenny Ying. Ricerca condotta nel 2011 presso alcuni dipendenti di un call center cinese.
** In molti hanno riflettuto insieme a Seneca sul fatto che non è vero che abbiamo poco tempo: la verità è che ne perdiamo molto (Brevitate Vitae).
Note di lettura
*** È interessante osservare come le aziende e gli uffici moderni diventano un po’ come il panopticon (o panottico: pan: tutto, ottico: vedere), il carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. Questo carcere è costituito di un edificio circolare trasparente, dove ciascuna cella è dotata di due finestre ed è attraversata dalla luce e sono disposte attorno a una torre centrale in cui si trova la guardia. I sorvegliati possono essere visti sempre senza però che possano vedere la guardia. Quest’ultimo può assentarsi (e potrebbe anche non esserci proprio) in quanto la disposizione stessa dello spazio fa sì che l’individuo in cella si crede osservato e sorvegliato in ogni momento. I carcerati, sapendo di poter esser osservati, avrebbero così assunto comportamenti disciplinati e mantenuto l’ordine in modo quasi automatico.
Note di lettura
**** “Work from home & productivity : evidence from personnel & analytics data on IT professionals”, par Michael Gibbs, Friederike Mengel et Christoph Siemroth in Le Nouvel Economiste, 14.06.2021. Ricerca condotta su oltre 10.000 dipendenti di un’azienda tecnologica asiatica tra aprile 2019 e agosto 2020.
***** “Don’t Let Employees Pick Their WFH Days”, Nicholas Bloom, 25.05.2021, in Harvard Business Review.