Si può, in generale, non essere né comunisti né fascisti? Si può evitare di essere additati come dei provocatori, rossi o neri, quando si affronta la tragedia delle foibe e dell’esilio forzato degli istriani? Io penso di sì, anzi, per essere più preciso, credo che sia doveroso e necessario proprio per il rispetto che dobbiamo avere, anche a distanza di anni, per le troppe vittime di quelle strazianti vicende che hanno visto massacrare migliaia di italiani, vittime della crudeltà e ferocia che caratterizzarono l’epilogo della Seconda Guerra mondiale in quei territori.
Ce lo dimostra proprio il figlio di un esule fiumano, Diego Zandel, nato nel 1948 nel campo profughi di Servigliano e cresciuto nel villaggio Giuliano-Dalmata di Roma. Zandel è un vecchio e apprezzato collaboratore di questa rivista. Da sempre i suoi lettori gli sono grati per aver tirato fuori dai cassetti, con le unghie e coi denti, dall’oblio generalizzato, la drammatica storia sia delle vittime delle foibe sia dello straziante esodo dei profughi istriani. Zandel, figlio di una famiglia fiumana fuggita dalla Jugoslavia di Tito, è nato proprio in un campo di profughi e di lì ha iniziato la sua vita sentendo sulle spalle la responsabilità di raccontare quella tragedia che nessuno più voleva ricordare, né rivisitare.
Con caparbietà, determinazione, senso di giustizia e di equità, oggi noi dobbiamo essere grati a Diego Zandel perché, anche grazie alla sua opera di appassionato di storia, ci ha aiutato ad aprire gli armadi di quella vergogna, comprendendone tutti gli aspetti anche quelli che ci piacciono meno a noi italiani più fortunati, di una storia in cui spesso il “brava gente” si adatta poco alla nostra comunità.
In quest’ultima opera “Autodafè di un esule. Nel ricordo delle foibe e dell’esodo Giuliano-Dalmata” (Rubbettino Editore), che ha ricevuto il premio Tomizza, Zandel riparte dalla storia di una vicenda piena di chiaro-scuri, culminata con un processo al capo della polizia politica di Fiume, la famigerata Ozna nel 1945, Oskar Piskulic, imputato di omicidio continuato ed aggravato, protagonista di efferatezze nei confronti dei cittadini italiani residenti in quel territorio alla fine della Seconda Guerra mondiale.
Il processo iniziatosi finalmente, dopo un omertoso momento di smemoratezza collettiva da parte delle autorità politiche sia italiane sia jugoslave, nel 1997 si concluse sette anni dopo, nel 2004. Fu un processo molto mediatico, si direbbe oggi, caratterizzato da violente polemiche politiche e diplomatiche tra i due paesi confinanti e all’interno, sia dell’Italia sia della Jugoslavia. Nella sostanza lo scontro si svolse tra una sinistra che cercava di giustificare, nascondendone l’ampiezza del fenomeno, le foibe e in più additava come fascisti tutti gli esuli italiani fuggiti, o meglio dire cacciati, dalle milizie di Tito; e una destra che a fatica cercava di rivisitare quel periodo, certamente trovandone motivi autoreferenziali, per fare luce sulla realtà di quelle due tragedie da imputarsi esclusivamente alla decisione di Tito “di farla pagare agli italiani”.
Nacque così e si consolidò una contrapposizione ideologica che non aiutò gli italiani, non schierati pregiudizialmente da una parte o dall’altra, a capire cosa fosse successo, cercando di bucare i muri di dolosa omertà o, peggio, le ricostruzioni di parte chiaramente mirate a difendere un’idea e un operato criminale. Zandel nel ricostruire il processo all’efferato capo della polizia politica di Fiume (alla fine assolto!), si fa carico, assumendosi le relative responsabilità, di aver quasi accettato quel clima anestetizzante che era stato la cifra degli anni ‘50 e ‘60 nel nostro paese, a proposito della tragedia degli italiani in Jugoslavia in quella metà del 1945. Con grande onestà intellettuale l’autore sviluppa un’analisi approfondita e dolorosa di un approccio a quel problema che ebbe anche lui, in quegli anni impegnato nella sinistra italiana. Quello che Zandel non si perdona è di non essere andato a fondo nella verità storica di quei fatti che colpirono anche la sua famiglia.
Quest’ultima opera del nostro amico e collaboratore de L’Incontro, Diego Zandel, aiuta soprattutto le nuove generazioni a leggere meglio quella storia e a prendere le distanze da tesi precostituite o da letture puramente ideologiche. Zandel attraverso questo saggio si libera, con grande trasparenza e franchezza, di un peso che gli gravava sulla coscienza per come avesse affrontato negli anni giovanili quelle tragiche vicende.
La storia bisognerebbe cercare di raccontarla per com’è andata anche se facendolo non ne usciamo con dignità e orgoglio. Diego Zandel ci dà una grande lezione in questo senso, con modestia, autocritica ma anche grande dignità. Un libro da non perdere per tutti gli amanti della storia del Novecento, alla disperata ricerca di una revisione virtuosa e non manichea di quel secolo, forse breve, ma sicuramente tragico e ancora non studiato e compreso completamente in tutti i suoi aspetti.
Riccardo Rossotto