Riproponiamo questo articolo di Fabio Ghiberti sull’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, pubblicato da La Marianna il 1° novembre 2018, ma purtroppo molto attuale.
C’è di nuovo un tragico problema di “manina”. Una manina atecnica, una macabra manina da forca. Ma domani sono “i morti”, ieri era Halloween.
Scherzetto senza dolcetto: un emendamento al disegno di legge sulla corruzione dice così: ”il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado … fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio …”.
È la prescrizione del popolo, caro popolo, perché non devi pensare “tu popolo” che queste semplici parole riguardino il mafioso, il corruttore, il corrotto o lo stupratore. Queste semplici parole riguardano te, riguardano tutti.
Queste semplici parole, sono per tutti quelli che, nel panpenalismo, si trovino invischiati in una vicenda giudiziaria. La tua mente sta pensando: non è un problema mio, è un problema dei delinquenti. Sbagli popolo. Potrei farti degli esempi, molti, ma voglio che tu dorma tranquillo.
E tieni conto popolo che manca un genitivo nel testo: manca “di condanna”. E sì, perché la tua prescrizione rimarrà sospesa anche se sarai assolto, anche se accusato ingiustamente.
Non voglio perdermi in tecnicismi, ma con il carico di lavoro e le scarse risorse di cui i Tribunali dispongono, quelle semplici parole significano che il processo, il tuo, il nostro, potrà durare decenni o per sempre. Fine processo mai. Significa che almeno per decenni non saprai se dovrai scontare una pena e quale sarà; non saprai cosa fare della tua vita, della nostra vita. E magari sarai uno, saremo uno, assolto in primo grado e innocente.
Lascio perdere e non mi dilungo sui diritti dell’imputato e dell’imputato colpevole perché lo so popolo che è un “altro da te”. Penso a noi, che imputati non siamo e colpevoli forse nemmeno, ma che patiremo come e più dei colpevoli questa norma se verrà introdotta.
Le norme non sono per gli altri, sono per te, per noi.
Se la manina vincerà, molti saranno i processi che termineranno con l’estinzione del reato per morte del reo, perché se l’indagine inizia quando hai 50 anni non è detto che ne vedrai la fine con l’andazzo attuale. E magari sei innocente. E magari ti hanno assolto in primo grado. Ma morirai lasciando il dubbio a tutti, anche alla moglie del popolo e al figlio del popolo. Il figlio della colpa del popolo.
Per ottenere legalità ci vuole efficienza, bisogna mettere i Magistrati in grado di lavorare con nuove risorse, non permettere alla macchina un tempo infinito ed incostituzionale. Ah, sì, piccolo particolare, la costituzione più bella del mondo prevede che il processo sia breve. E anche la CEDU lo prevede.
Senza efficienza c’è e ci sarà un’equiparazione tra colpevoli e innocenti. Non è una norma contro i colpevoli, quella della manina, è contro gli innocenti. Spero che tu lo capisca.
Se la manina vincerà torneremo non al fascismo, non al nazismo, ma prima dell’anno 1000. Quando Papa Formoso subì il Sinodo del cadavere, un processo per sacrilegio avvenuto nel 897, istruito post mortem per volere di papa Stefano VI. Il corpo di Formoso fu riesumato, sottoposto ad interrogatorio, condannato e “giustiziato”.
Stiamo tornando lì, dalla prescrizione come tempo dell’oblio, alla prescrizione come tempo della morte.
Buoni “morti”.
Fabio Ghiberti
Per chi volesse approfondire un po’, La Marianna aveva pensato ad una legge.
La Legge Mori
I presupposti.
Ogni principio tramutato in legge naufraga nel mare dell’inefficienza. È impossibile garantire il corretto funzionamento del sistema senza luoghi adeguati, senza personale amministrativo, senza strutture, senza informatizzazione ecc..
Prima di tutto dunque, prima di ogni riforma: RISORSE PER LA GIUSITIZIA. È impensabile avere l’azione penale obbligatoria, un alto numero di fattispecie penali, il rito accusatorio e destinare per la realizzazione di tutto ciò solo lo 0,9 del bilancio dello Stato. Il sistema repressivo e quello delle garanzie per l’imputato non possono rimanere sulla carta, debbono essere supportati con strumenti adeguati. Da una prima verifica fatta, l’investimento non sarebbe grande e, peraltro, avrebbe un ritorno di grande impatto economico. L’inefficienza della Giustizia costa da 1 a 3 punti di PIL, secondo autorevoli studi scientifici. Un esempio lampante su tutti emerge dai dati che derivano da uno studio della Banca d’Italia e cristallizzato nella “Nota di stabilità finanziaria e vigilanza (n. 3, Aprile 2016). Da essa si apprende che al dicembre 2015 il totale dei crediti deteriorati, cioè denaro che la Banca ha erogato e che fatica o ha perso ogni speranza di recuperare, ammontava a 360 miliardi di Euro. Una cifra impressionante. E si apprende altresì che la cifra che gli operatori di mercato specializzati sono disposti ad offrire per acquistare tali crediti è inversamente proporzionale ai tempi di recupero giudiziali. Volgarmente: più il Tribunale fa in fretta ad accertare il credito ed a eseguirlo, più quel credito vale sul mercato. Tale studio stima che l’accorciamento di tali tempi anche di un solo anno accrescerebbe il prezzo di 4,6 punti percentuali. Se si applica tale percentuale al totale dei menzionati crediti deteriorati si ottiene una cifra miliardaria, una finanziaria. Miliardi che, al netto delle perdite, irrorerebbero di linfa vitale gli istituti di credito e di conseguenza il sistema economico. Non è difficile da comprendere che più la Banca “sta bene”, più eroga credito e meno lo Stato deve intervenire per sostenerla. Ecco dimostrato, in breve e con un esempio paradigmatico, che più i Tribunali sono efficienti, più il sistema è ricco e minore è invece la spesa pubblica. Per tale ragione ci vorrebbe una “legge Mori” anche in materia di procedura civile, magari che estendesse il più snello e orale rito del lavoro anche agli altri settori privatistici.
Certo non solo la politica ha delle responsabilità: anche gli operatori del diritto debbono fare la propria parte orientando le proprie politiche di categoria a due topoi fondamentali: per la Magistratura “Meritocrazia”, per l’avvocatura “Specializzazione”. Per avere e pretendere maggiori risorse è necessario migliorare, tutti.
Altri interventi di cui il sistema ha bisogno e che potrebbero creare un terreno migliore sul quale far vivere la “Legge Mori” sono una razionale depenalizzazione ed il potenziamento degli strumenti deflattivi, primo tra tutti l””esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”di cui all’art. 131-bis, c.p.. Si tratta di uno strumento senz’altro efficace e coerente con i principi dell’ordinamento. Con esso non si opera una scelta tra fattispecie, che è compito esclusivo del legislatore, ma una selezione orizzontale e concreta tra fatti più o meno offensivi. Una selezione che è e deve essere compito esclusivo del Magistrato ed in particolare del Pubblico Ministero in prima battuta e di un Giudice terzo sotto il profilo della decisione finale ancorata solidamente a precisi parametri previsti dalla legge.
Un sistema con gli strumenti adeguati non ha (non avrebbe) più alibi per garantire TEMPI CERTI per i processi. In questa prospettiva si è pensata e si svilupperà la “Legge Mori”, basata sulla distinzione tra prescrizione del reato e decadenza dell’azione penale.
La prescrizione del reato.
La prescrizione è il “tempo dell’oblio”, non è il “tempo del processo”. Essa segna il momento dell’affievolirsi delle ragioni (retributive e preventive) che giustificano la pena. Non solo, essa garantisce anche il diritto di difesa poiché tanto maggiore è la distanza dai fatti, tanto più difficoltosa è la ricostruzione probatoria e la possibilità di ricercare prove a discarico. Per tali ragioni essa non si riferisce al tempo del processo, ma al periodo intercorrente tra il reato e l’attivazione della pretesa punitiva dello Stato.
Ragionevole potrebbe pertanto essere la previsione di termini prescrizionali che abbiano come dies ad quem il deposito degli atti d’indagine ai sensi dell’art. 415-bis c.p.p.. Tale momento rappresenta infatti la prima espressione della proposta repressiva statuale (poiché il PM ha concluso le indagini senza richiedere l’archiviazione) e la prima occasione di difesa per l’indagato.
La decadenza dell’azione penale.
Diverso dalla prescrizione è l’istituto, de iure condendo, della decadenza dell’azione penale. Quest’ultima è obbligatoria, tuttavia il suo esercizio va bilanciato con un altro principio costituzionale (e sovranazionale): “la ragionevole durata”. Peraltro nel nostro ordinamento esistono già casi di interruzione, sospensione o mancato esercizio dell’azione punitiva in assenza/in attesa, ad esempio, di condizioni di procedibilità (50 c.p.p. e casi specifici). Con la “Legge Mori”, in attuazione degli artt. 111 COST., 6 CEDU e 117 COST, si propone l’introduzione di un elemento nuovo che influisce sull’esercizio dell’azione penale: il tempo. Un tempo decorso il quale essa si estingue poiché, se continuasse, lo farebbe in violazione di diritti fondamentali.
Nel nostro ordinamento “la ragionevole durata del processo” è un principio quotidianamente vulnerato (vulnus, che rappresenta una garanzia per i colpevoli ed una tragedia per gli innocenti) ed è presidiato solo dalla c.d. “legge Pinto”, che prevede un rimedio risarcitorio. Al di là del fatto che la CEDU, all’art. 41, prevede tale rimedio solo come residuale, bisogna in concreto registrare come in realtà esso si sia rivelato totalmente inefficace, dannoso per l’economia statuale, oltre a rappresentare a sua volta un carico per la Giustizia. Gli stessi processi attivati con la “legge Pinto” durano troppo e danno origine ad ulteriori richieste risarcitorie; inoltre è molto difficile l’aggressione dei beni dello Stato da parte degli attori che ottengono ragione.
Più razionale ed efficace prevedere che un processo, superati termini analoghi a quelli della legge in parola, si fermi.
Una prima embrionale proposta, con l’auspicio di svilupparla con Magistratura, Avvocatura ed Accademia insieme, potrebbe essere la seguente.
La pretesa punitiva dello Stato deve essere scandita dai seguenti termini perentori, pena la decadenza dell’azione.
1.Tra la notizia di reato e l’iscrizione nel registro degli indagati ex artt. 335 c.p.p. di un presunto colpevole: 1 mese (tempo sufficiente per valutare se il fatto descritto è penalmente rilevante).
2.Tra l’iscrizione ex art. 335 c.p.p. e l’esercizio dell’azione penale (richiesta di rinvio a giudizio o citazione diretta): 18 mesi o 2 anni per i reati più gravi (gli attuali termini massimi previsti per le indagini preliminari dall’art. 407 c.p.p., salvo proroghe per eventuale incidente probatorio ex art. 393, comma 4, c.p.p.).
3.Tra l’esercizio dell’azione penale e la sentenza di primo grado: 3 anni se il reato prevede l’udienza preliminare, 2 anni nel caso di citazione diretta a giudizio.
4.Tra la sentenza di primo grado e quella pronunciata in grado d’Appello: 2 anni (il termine può apparire eccessivo, ma bisogna tenere conto che le Corti d’Appello hanno un carico di lavoro che deriva dalle sentenze impugnate nell’intero distretto).
5.Tra la sentenza pronunciata in grado d’Appello e quella di Cassazione: 1 anno. (Lo stesso termine per l’eventuale giudizio di rinvio).
Debbono poi essere previste proroghe nel caso in cui vi sia la necessità di acquisire prove decisive ai sensi dell’art. 507 c.p.p.; e sospensioni ad esempio nel caso di autorizzazioni a procedere, di questioni deferite ad altro Giudice o di impedimento dell’imputato o del difensore.
Infine, a tutela delle persone offese, si deve stabilire che a seguito di pronuncia di condanna in primo grado e di non doversi procedere per intervenuta decadenza nel secondo, il Giudice d’Appello si esprima sulle richieste risarcitorie liquidando il danno.
(F.G.)