Ripensando alle venti tappe “Dal Tonale al Carso. Storia e storie camminando lungo il fronte”, ho riguardato le pietre che man mano ho raccolto nei luoghi più significativi che ho visitato. La cruda materialità delle pietre si è intrecciata quindi con i ricordi, le emozioni, le cose che ho ascoltato, le cose che ho letto. Con le cose che ho studiato e che pensavo di sapere. Libri, ricordi e pietre. È un po’ come tornarci.

Ogni tanto mi mettevo una pietra nello zaino

Le pietre ispide delle montagne del Tonale, quelle appuntite del Pasubio, quelle arrotate e levigate dalla corrente del Piave. La pietra che emerge dai pascoli del Monte Grappa, quelle spigolose del Kolovrat. Quelle taglienti e dure, arse e riarse, del Carso. Sì, camminando ogni tanto mi mettevo una pietra nello zaino. Prima la tenevo in mano, la guardavo, la sceglievo tra tante. Era una conoscenza tattile. Il tatto è un senso che siamo poco abituati a utilizzare.
Paradossalmente di tatto ne usiamo di più per rapportarci con le persone, inteso come modo di porci. Via via ha perso il significato originario di strumento di conoscenza che crea un rapporto immediato con le cose. Tatto per conoscere e distinguere appunto la pietra levigata di un fiume o la pietra arida e tagliente di una dolina del Carso.

Le mille sensazioni del tatto

Il tatto lo usano bene gli alpinisti, quando devono trovare un appiglio affidabile.
Il tatto lo usavano bene i sarti, per valutare la qualità di un tessuto. Lo usavano anche tutte le persone sensate per saggiare la qualità di un vestito prima di acquistarlo, quando il valore intrinseco era più importante del brand. E forse c’è qualcosa in comune tra la trama di un tessuto e la traiettoria di un’ascensione. Forse c’è una relazione tra il tatto inteso come modo di rapportarsi tra le persone e il tatto come modo per conoscere un sasso, una relazione con un luogo. Un collega mi fa presente che Karol Wojtyla (sotto pseudonimo) negli anni Sessanta, dalla Terra Santa, scrisse una poesia su questa lunghezza d’onda. Mi viene in mente il Cardinal Martini, quando diceva di ascoltare il non credente che era in lui.
Che io stia ascoltando il credente che è in me?

Scuoto la testa

Scagliare pietre piatte sulla superficie cheta di un lago e fare a gara di rimbalzi.
Lo sto facendo coi pensieri. Da bambino giocavo con le pietre focaie: strofinare due pietre con venatura arancione e vedere con emozione la scintilla che veniva sprigionata, sentire il misterioso odore dello zolfo. Da quanto tempo non vedo una pietra focaia… Eppure di pietre che hanno acceso incendi negli anni successivi ne ho viste! Sì, le pietre delle rivolte: eccolo, infatti, il cubetto di porfido. Quello ha una storia diversa. I miei amici lo sanno: sanno che in ogni mia vettura, sotto il sedile di guida, tengo un cubetto di porfido. Lo sanno e sorridono.
Ma non mi chiedono che cosa ne faccio. O meglio, che cosa me ne faccio. Loro, gli amici “storici”, hanno ben chiaro il nesso fra la nostra vita fatta di storie (che ha cambiato sì, ma troppo poco la Storia) e il cubetto di porfido.

In ogni mia vettura, sotto il sedile di guida, tengo un cubetto di porfido

Quando si vedono da una parte ragazzi che lanciano pietre e dall’altra un esercito schierato, capisco subito da che parte stare. Ricordo un film palestinese inguardabile (perché lentissimo e pesantissimo), ma con una sequenza geniale. Ecco il ragazzino per strada con una pietra in mano e un carro armato che dalla torretta gli punta la bocca da fuoco.
Prendere la mira dalla prospettiva del carrista. La sproporzione che ha sullo sfondo un’ingiustizia. Un’ingiustizia che non ha il senso della misura. Un’ingiustizia smisurata.
Mi rendo conto che il mio pensiero vaga e si disperde in mille rivoli e poi alla fine torna a un punto. Ma non è il punto di partenza, ma un punto di sintesi.

L’ingiustizia smisurata in quei luoghi dove ho raccolto le pietre, tra il sangue, il dolore e la distruzione da una parte e le ambizioni, le carriere, le brame di potere, gli affari dall’altra. “La grande guerra di classe”, grande, grandissimo libro. Dalle pietre miliari alle pietre d’inciampo: punti fermi delle distanze, perno di una necessaria memoria. Ho assistito recentemente a un’interessante conferenza in cui un giovane e talentuoso fisico ha spiegato che la gravità non è una forza, ma è una manifestazione della flessione dello spazio-tempo.

Del resto spazio e tempo sono le due categorie con cui tutti i giorni facciamo i conti nell’organizzare la nostra vita, per scegliere le nostre priorità. Nello sfogliare le necessità. Se la gravità forse non è una forza, forse è una forza la levità? Forse. A volte, però, la levità diventa una debolezza. Mi viene in mente la canzone “Pietre” di Antoine, scritta se non sbaglio da Gian Pieretti e Ricky Gianco. La levità, derivante dall’arrangiamento con cui la canzone è stata presentata, che cosa ha fatto di un testo che lieve non è affatto? Ma questo è un altro discorso su cui tornerò.

Claudio Zucchellini

Claudio Zucchellini

Avvocato, Consigliere della Camera Civile di Monza, attivo in iniziative formative per Avvocati, Università, Scuole e Società Civile.

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