L’Europa vuole uscire dalla crisi d’identità che l’affligge ed essere più competitiva nel prossimo futuro. Per capire come raggiungere questo obiettivo non si è affidata a una cartomante ma alle capacità di due ex-primi ministri italiani, trombati da una litigiosa e inconcludente classe politica italiana. Il primo step di questo percorso è stato affidato a Enrico Letta e al suo rapporto sul futuro del Mercato unico, il secondo a un altro ex-premier italiano, Mario Draghi, e alla sua relazione sul futuro della competitività europea. In questo articolo ci soffermiamo sul secondo report.
Quello di Draghi è un documento formale che sintetizza la visione e le politiche promosse dal noto banchiere durante il suo mandato come Presidente del Consiglio italiano (2021-2022) e come Presidente della Banca Centrale Europea (2011-2019). Il punto di partenza è uno schiaffo dato con il buon proposito di svegliare la dormiente UE: per molto tempo la competitività è stato un tema controverso in Europa, affrontato con un focus sbagliato in quanto i Paesi europei si sono visti come reciproci concorrenti, evitando persino di guardare ogni tanto fuori dalla finestra di casa. Per essere più espliciti, Stati Uniti e Cina “stanno attivamente elaborando politiche per rafforzare la loro posizione di competitività e indirizzare gli investimenti a loro vantaggio e a spese nostre”. Roba da brividi: anche i nostri maggiori alleati orientano i loro investimenti per acquisire una nuova competitività a “spese nostre”. Mentre in Casa Europa ciascuno sbircia nel piatto dell’altro per capire se ha avuto una razione più abbondante, e nessuno pensa a cosa fare per garantirsi il pasto nei giorni a venire, Pechino “ha l’obiettivo di catturare e internalizzare tutta la catena di approvvigionamento nelle tecnologie verdi e avanzate” e Washington “usa politiche industriali su larga scala per attirare capacità manifatturiere di alto livello all’interno dei loro confini”. In questa forbice, già di per sé allarmante, l’Italia si distingue perché vende i gioielli di famiglia e la Exor esternalizza le produzioni.
Il piano si focalizza su dieci macro-settori dell’economia, legati da tre fili rossi: una maggiore integrazione economica e politica, con un’attenzione particolare alle sfide della transizione ecologica e digitale; la sovranità strategica; la riforma delle istituzioni europee per renderle più efficaci e resilienti di fronte alle crisi globali.
Uno dei pilastri del pensiero di Draghi è la necessità di una maggiore integrazione economica e fiscale tra i paesi membri dell’UE. Secondo lui, la creazione di strumenti come il Next Generation EU, che ha portato a un piano di ripresa economica comune finanziato con il debito europeo, rappresenta un passo decisivo verso una maggiore integrazione. Il piano sottolinea anche la necessità di accelerare la transizione verde e digitale in Europa, partendo da un’economia più sostenibile e dalla necessità di investire nelle infrastrutture digitali e nella decarbonizzazione dell’economia. La transizione ecologica è fondamentale per superare una situazione che vede le imprese europee subire costi energetici molto più alti rispetto ai concorrenti statunitensi, con influenze negative sul versante della competitività. Il piano sottolinea inoltre la necessità di bilanciare la disciplina fiscale con politiche di crescita, mettendo in guardia dai rischi di un’eccessiva austerità e sottolineando l’importanza di politiche fiscali espansive per stimolare l’economia. Non da ultimo, l’Europa deve trovare un equilibrio tra il controllo del debito pubblico e il sostegno agli investimenti in settori strategici come l’innovazione, l’energia e l’istruzione. Attraverso questo Piano, Draghi si fa promotore di una visione dell’Europa basata sulla solidarietà e la coesione sociale. La sua idea è che l’UE debba rafforzare le sue politiche sociali per ridurre le disuguaglianze economiche tra i suoi membri, promuovendo il benessere di tutti i cittadini europei.
Il secondo filo rosso riguarda la necessità per l’Europa di rafforzare la sua sovranità strategica. Questo concetto implica una riduzione della dipendenza dell’UE da altri attori globali in settori cruciali, come la tecnologia, l’energia e la difesa. Draghi sostiene che l’Europa deve essere più indipendente nelle sue decisioni economiche e strategiche, garantendo una maggiore autonomia rispetto alle grandi potenze globali, in particolare Cina e Stati Uniti. “Un mercato energetico integrato garantirebbe costi bassi dell’energia per le nostre imprese e più resilienza in caso di future crisi, ma non riusciremo a creare una vera Unione dell’energia, a meno che non ci accorderemo su un approccio comune”.
Il terzo filo rosso riguarda le riforme istituzionali: per garantire il successo dell’integrazione europea e affrontare le sfide globali, l’UE deve riformare le sue istituzioni e creare meccanismi più efficienti per prendere decisioni rapide e incisive, in particolare nelle aree della politica estera e della sicurezza. Una politica estera comune e un esercito europeo sono strumenti che rafforzerebbero la posizione dell’Europa come attore globale autonomo rispetto a potenze come Stati Uniti, Cina e Russia. Poiché l’instabilità geopolitica rende necessario un aumento di spesa per la difesa, meccanismi istituzionali più efficienti renderebbero le decisioni più rapide e meno conflittuali.
Le cose da fare non solo sono tante – il piano contiene 170 azioni percorribili per mantenere l’Europa economica, e sociale, al passo coi tempi -, ma bisogna farle con “urgenza e concretezza”, dove concretezza significa che “se l’Europa non diventerà più produttiva saremo costretti a scegliere” perché “non potremo essere allo stesso tempo leader nelle nuove tecnologie, un faro della responsabilità climatica e un attore indipendente sulla scena mondiale”. E non mancano nemmeno le minacce: se l’Europa non diventa più produttiva, “non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale” e, ancora più drasticamente, se non sarà fattibile un coordinamento della politica economica a Ventisette “dobbiamo considerare la possibilità di andare avanti con un sottogruppo di Stati membri”. Questo da un lato significa superamento del diritto di veto, cosa sana e giusta, ma dall’altro significa mettere, ancor più di oggi, il potere della UE nelle mani dei soliti Paesi forti, indebolendo il principio della Comunità. Un male forse necessario per garantire “l’esistenza” della UE, obiettivo prioritario, ma che cozza contro un altro obiettivo del piano: l’allargamento del perimetro UE.
Il rapporto sostiene che questo approccio completo è necessario affinché l’UE mantenga la sua prosperità, i suoi valori e la sua influenza globale in un ambiente geopolitico più impegnativo. Sottolinea che l’Europa deve agire in modo decisivo e unificato per riformare se stessa e aumentare la competitività. Sebbene alcune proposte richiederebbero modifiche dei trattati, il rapporto sostiene che molto può essere realizzato attraverso adeguamenti mirati ai quadri esistenti.
Al di là della legittimità democratica di Mario Draghi a scrivere un rapporto a nome UE, la prima sensazione che si ha a leggere il mastodontico report di 328 pagine, o anche solo la sintesi di 70 pagine, è che siamo di fronte a un testo contradditorio: si vogliono fare tante cose che si pestano reciprocamente i piedi.
La politica è l’arte di impiegare risorse, soprattutto quando sono scarse, e costruire consenso intorno alle priorità che si scelgono, ma Draghi sembra sottrarsi a questo vincolo e come soluzione propone di usare risorse quasi illimitate: investimenti per almeno 800 miliardi di euro all’anno, specificando che la cifra potrebbe essere addirittura sottostimata. Da brividi è la precisazione che questa montagna di soldi non serve per ambire a essere i primi della classe, ma per garantire la semplice “esistenza della UE”. Pur evitando la battuta che con risorse illimitate anche l’ex senatore Antonio Razzi, la macchietta di Crozza, saprebbe cavarsela, rimane doveroso chiedersi dove trovare le risorse per finanziare il progetto.
Come sappiamo, le strade possibili sono tre: aumento delle tasse, debito pubblico, aumento degli introiti fiscali, messo volutamente al terzo posto perché dalla nascita della UE nulla è stato fatto su questo piano. Anche sul debito pubblico ci sarebbe molto da obiettare, visto che ha finanziato il Next Generation EU, col mal di pancia di diversi Paesi “che contano”.
Un passaggio del report induce a ritenere che le risorse dovrebbero essere investimenti pubblici europei finanziati da debito comune europeo, ma in un altro passaggio si specifica che il debito comune è soltanto una tra le tante vie per arrivare alla meta di un raddoppio degli investimenti nell’Unione. Il classico un colpo al cerchio e uno alla botte!
Come anticipato in apertura, il piano è contradditorio perché sembra volere tutto e il contrario di tutto: attirare investimenti stranieri e costruire alleanze, ma anche attuare un protezionismo selettivo per proteggere i settori strategici (esattamente ciò che negli ultimi anni la UE ha contestato agli Stati Uniti); integrarsi di più ma anche di meno, riducendo il peso regolatorio là dove è ridondante; difendere il mercato unico e la concorrenza ma anche favorire le fusioni e le acquisizioni là dove servono imprese più grandi. Su quest’ultima contraddizione, non si può che concordare sulla necessità di imprese europee del calibro di Google, Microsoft, OpenAI, perché non basta l’innovazione nel settore automobilistico. Ma come si possa sperare di far germogliare una Silicon Valley europea in un’Unione più protezionista e dalle prospettive economiche condizionate dalla politica è poco chiaro. Senza contare che il nostro ministro degli Esteri, Antonio Tajani, predica la necessità di formare falegnami per diffondere il made in Italy dell’arredamento in nuovi mercati!
È, dunque, da cestinare il piano Draghi? Certamente no, perché ha quanto meno il pregio di sottolineare in modo chiaro e tondo la necessità di uno sforzo di visione totalmente estraneo alla politica nazionale di molti Stati membri, sostenendo la necessità che i Paesi dell’Unione europea affrontino questa crisi in maniera coesa, cosa fin qui tutt’altro che scontata nella pratica, come dimostra l’italica trovata dell’autonomia differenziata.
Il nervo scoperto del piano Draghi è che sembra innestato su un modello economico che ha già fallito, perché parla di competizione ignorando del tutto il tema del dialogo e della cooperazione con i poteri emergenti. Inoltre, in alcuni passaggi si spinge l’acceleratore nella direzione della transizione green, ma nella visione d’insieme sembra che la sostenibilità, l’inclusione sociale, la riduzione delle disuguaglianze siano considerati prima di tutto come dei costi.
Il piano si concentra molto sul settore della difesa, arrivando a proporre un canale privilegiato di finanziamenti per l’industria delle armi. Intanto, non è vero che l’industria militare sia il luogo dell’innovazione, così come non è vero che la ricchezza che produce vada a beneficio della società, quando in realtà arricchisce solo alcuni, i cui capitali finiscono nel circuito della finanza e della speculazione, non dell’economia.
Come si sa, le omissioni spesso producono più danni delle bugie. Combattere seriamente l’evasione fiscale sarebbe già di grande aiuto, soprattutto in Italia. Eppure il piano Draghi di paradisi fiscali non parla, benché l’Europa ne sia piena.
Come concludere? Finalmente una visione di ampio respiro, poco europea… ma anche poco realistica. Senza una Costituzione europea che fissi un quadro di riferimento per le scelte e le azioni di ogni singolo Paese, è inutile ipotizzare politiche comuni per la Difesa, la fiscalità e altro.
Mario Grasso
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