Il direttore de L’Inkiesta ha scritto un editoriale, citando L’Incontro e riprendendo il filo dello scontro tra Conte e Casaleggio come secondo atto rispetto alla disputa sul rapporto tra una società privata e un partito politico.
Noi, insieme a L’Inkiesta, Jacopo Iacoboni, il Foglio e Giuliano Da Empoli, l’abbiamo scritto in tempi non sospetti e siamo stati denunciati. Al centro, proprio i nostri dubbi sulla legittimità di una proprietà per un movimento politico. Nulla a che vedere con il “partito azienda”, perché, in quel caso l’obiezione sul rapporto tra i soggetti riguardava un’opportunità politica.
Qui non si trattava e non si tratta di questioni politiche. E, a questo punto, anche legali.
Ora, l’ex premier Giuseppe Conte che vuole scalare la gerarchia del Movimento 5 Stelle, punta a smarcarsi da Rousseau e Casaleggio usando gli stessi nostri argomenti. “Lo denunciano utilizzando gli stessi argomenti individuati per tempo da una minuscola pattuglia di antifascisti della nostra misera epoca: Luciano Capone e il Foglio prima dell’incredibile resa contiana, gli ex Nicola Biondo e Marco Canestrari, il giornalista Jacopo Iacoboni, l’intellettuale Giuliano da Empoli e un piccolo giornale di opinione”, scrive Rocca nel suo editoriale.
Terminata la lettura dell’editoriale resta la duplice sensazione di orgoglio e amarezza che può suggerire tutta la faccenda.
Sicuramente siamo orgogliosi di aver ragione da allora. Ma ci si può fermare lì? Proprio no.
Resta l’amaro in bocca dei corollari che il teorema si porta dietro. C’è la lotta ibrida tra politica e carte bollate per la guida di quello che resta ancora il primo partito rappresentato in Parlamento. C’è la diatriba per una leadership che in un paese normale arriverebbe per altre vie.
Nel giorno dedicato a Dante, torna la memoria al sesto canto del Purgatorio, quello di Ahi Serva Italia, se qualcuno deve trovare riferimenti mainstrem o da Bignami. La diatriba si riassume in quel verso meno noto: “e un Marcel diventa / ogne villan che parteggiando viene”. Siamo alle comiche finali, ci fosse qualcosa da ridere. Sono comiche fatali per un paese che non cresce e non s’inventa un futuro.
La vicenda appunto, è il precipitato di anni di una classe politica, e di molta classe dirigente, trovata per le vie del nepotismo (dei figli dei figli o nipoti dei nipoti), dell’appartenenza lottizzatrice, per l’anzianità di servizio o l’anzianità e basta.
Un piccolo segnale arriva anche dal titolo del commento di Rocca: “Conte fa causa a Casaleggio e altre cose per cui speravamo de morì prima”. Il titolo è ad effetto con un occhio a Netflix.
Ma attenzione, perché è un po’ nella seconda parte della frase ci stiamo incastrando. La declinazione romanesca del più noto: “era meglio morire da piccoli”, non basta come uscita di emergenza. O dall’emergenza.
Non si può pensare che basti togliere il disturbo senza aver messo a posto, prima di aver, almeno in parte, riordinato lo spazio nel quale si è fatto bisboccia e mangiato a sufficienza e (ben oltre).
Ottimo che si abbia ragione sulle storture del sistema. Ottimo che si capisca che i nostri Marcelli e per certi versi, anche i Cesari, non siano all’altezza. Poi c’è il resto: come sfruttiamo quel tempo prima de’ morì per evitare di non creare troppi danni alle generazioni che ci seguono.
Perché, se non fossimo in grado di trovare una soluzione, se in realtà sentissimo una certa inadeguatezza a scrivere un piano per la Next Generation quando siamo ben oltre la maturità, a scrivere un programma di sviluppo di un territorio per un tempo che al massimo ci vedrà, su quel territorio, un po’ agli sgoccioli, allora, ci converrebbe, anche se vivi e vegeti, farci da parte prima.