A raccogliere, tardivamente per la verità, il grido di allarme di David Quammen (l’autore di Spillover) è stato l’Istituto Emerging Pathogens dell’Università della Florida.
Il centro di ricerca diretto dalla prof.ssa Ilaria Capua.
Un viso ormai popolare per noi italiani che ascoltiamo, ogni giorno, trepidanti, le sue ormai quasi quotidiane riflessioni sulla dinamica di diffusione del Coronavirus.
La professoressa Capua era già un’innovatrice agli inizi del III millennio quando, nel 2006, rese pubblica, per la prima volta, la sequenza genetica del virus dell’Aviaria, battezzando, con quella scelta, l’inizio del movimento di Open Source nel campo dei virus influenzali.
Soltanto in questo modo, attraverso una ricerca che diventa pubblica e quindi a disposizione di tutti, sosteneva la Capua, si può sperare in un vero e fattivo coordinamento internazionale che permetta di combattere efficacemente il contagio di nuovi virus, figli dello “Spillover” del genere animale.
Ebbene, da qualche anno, e ultimamente sempre con maggior convinzione, Ilaria Capua si batte per un grande progetto denominato One Health, un sistema circolare di gestione della salute pubblica, coordinato, auspicabilmente a livello mondiale, da tutte le nazioni facenti parte del Villaggio Globale.
La filosofia a fondamento di One Health, sviluppata dal centro di ricerca della Florida, si basa su questo ragionamento: noi umani siamo pezzi di un solo sistema, in cui la salute di ogni elemento umano, animale o ambientale è strettamente interdipendente da quella degli altri. Preso atto che noi umani abbiamo significativamente alterato l’ecosistema per il 75% delle terre emerse e per il 66% dei mari e degli oceani, non rispettandone spesso gli equilibri, ci possiamo rendere conto del perché siamo finiti assediati da virus patogeni provenienti da animali devastati da questo mancato rispetto dell’ambiente.
“Oggi è necessario – continua a dire e a scrivere Ilaria Capua – parlare di salute circolare. Dobbiamo trovare soluzioni innovative e interdisciplinari per rispondere alle sfide globali senza concorrere ulteriormente all’impoverimento delle risorse e della biodiversità”.
E’ fondamentale ai fini del successo di questo progetto, coinvolgere tutta la filiera alimentare degli agricoltori e degli allevatori che devono diventare co-protagonisti consapevoli del loro ruolo e dei loro comportamenti.
E’ noto che circa il 75% delle malattie infettive emergenti che interessano gli esseri umani sono di origine animale e circa il 60% di tutti i virus che colpiscono l’uomo sono zoonotici.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) scrive nel suo report 2019 che è fondamentale il coinvolgimento dei produttori primari: esso risulta più difficile dove non sono rappresentati da associazioni di categoria e hanno quindi più difficoltà a diventare interlocutori di un progetto di rilevanza mondiale.
Bisogna, in altre parole, arrivare ad un coinvolgimento di tutti gli attori per condividere un sistema di best practices a livello internazionale.
Ci sono infatti ancora troppe differenze nel mondo su questi temi: “La raccolta dei dati epidemiologici – ha detto al Corriere della Sera la prof.ssa Barbara Padalino dell’Università di Bologna, da anni impegnata nel progetto One Health – risulta ancora differente perché ogni Stato ha un sistema diverso di censimento, ma anche di diagnosi delle patologie. Inoltre sulla raccolta dati hanno un importante effetto anche le diverse leggi esistenti sulla sanità e riguardanti quali malattie sono denunciabili o meno, spesso anche a fronte di politiche di trasparenza molto diverse”.
I nuovi strumenti della rivoluzione digitale in atto potrebbero aiutare in modo decisivo questa auspicata trasformazione mondiale della filosofia degli interventi anti epidemie.
Blockchain, Big Data e Intelligenza Artificiale possono permettere la raccolta di tutti i dati necessari, la loro secretazione, la loro rielaborazione secondo algoritmi precondivisi.
L’analisi statistica farebbe, di conseguenza, passi da gigante e permetterebbe ai legislatori di adottare strumenti normativi adeguati a questo tragico fenomeno con cui dovremo convivere nei prossimi decenni.
Insomma, i politici potrebbero assumere decisioni più sicure, più solide, basate su una statistica molto attendibile.
“Sono dell’idea – ha scritto Ilaria Capua – che i governi debbano dotarsi di uno Chief Scientific Officer come dovrebbero fare anche le aziende, non solo le grandi. Un Chief Scientific Officer di assoluta levatura scientifica avrebbe la benzina e le risorse per mettere insieme dei gruppi di esperti e parlare dei temi che riguardano più in generale il rapporto tra società moderna e natura”.
Al giornalista del Washington Post che le chiedeva se ci dobbiamo abituare a questa “nuova normalità”, andando sempre in giro con la mascherina, Ilaria Capua ha risposto: “Sì: l’approccio della salute circolare prevede proprio questo, di capire che questa pandemia l’abbiamo creata noi, abbiamo creato le condizioni affinché il virus uscisse dal bacino selvatico, arrivasse in un mercato, passasse poi ai poveri che hanno aspettato troppo prima di andare dal medico e infine si diffondesse. Allora noi abbiamo preso dei “siringoni” cioè degli aerei e nel periodo in cui il Coronavirus girava camuffato da influenza lo abbiamo portato in tutto il mondo. In questo senso il virus si sta evolvendo. Stava ben tranquillo nei pipistrelli: se avesse potuto avrebbe infettato il villaggio vicino alla foresta e si sarebbe estinto e qualora non si fosse estinto, avrebbe camminato con le persone lentamente: la Spagnola ci ha messo due anni a fare il giro del mondo, il Sars-Co-V-2 una settimana. In definitiva dobbiamo aspettarci che questa sia la nuova normalità”.
Un altro passaggio decisivo della filosofia del progetto One Health sarà costituito dalla formazione di una nuova educazione civica per tutti noi cittadini. “Un cambiamento radicale – ha scritto recentemente Sara Moraca sul Corriere della Sera – non può prescindere dal coinvolgimento dei cittadini: diversi studi hanno dimostrato che le persone sentono un distacco spaziale e temporale rispetto alla tematica dei cambiamenti climatici, presumendo che le proprie condotte non potrebbero avere un impatto su un tema così importante”. “Dobbiamo capire che siamo tutti dei pre-pazienti – afferma la prof.ssa Capua – che devono cercare di diventare pazienti il più tardi possibile”.
Dobbiamo quindi diventare attori più partecipi e protagonisti, anche attraverso gli strumenti digitali, per informarci meglio sui fattori di rischio e gestirli con efficacia dal punto di vista delle conseguenze.
Un pubblico educato è un pubblico più attento e questo può mettere in atto circuiti virtuosi quali segnalazioni di fenomeni insoliti che possono portare alla scoperta precoce di focolai, aiutando così a prevenire successive pandemie.
Infine, l’interdisciplinarietà sarà l’arma vincente contro i futuri rischi di epidemie – pandemie.
Agli scienziati verrà sempre più chiesto di misurarsi non solo con strumenti comunicativi comprensibili, ma anche di interfacciarsi con settori disciplinari diversi, in certi casi vicini al proprio, ma spesso profondamente diversi.
“La collaborazione tra il mondo della medicina veterinaria e umana e l’ambiente è stata presente in diverse recenti crisi – ha scritto la prof.ssa Padalino – il Coronavirus ci dimostra quanto questo modello interdisciplinare abbia giovato proprio in occasione del Coronavirus in paesi come la Corea del Sud, Hong Kong e Singapore. Abbiamo forzato un ecosistema portandolo ad una grande concentrazione urbana. Abbiamo costretto il genere animale che doveva stare in mezzo ad una foresta a vivere in una metropoli. Questa pandemia ci deve aprire gli occhi, farci rendere conto che siamo solo un’altra specie animale di fronte ad un virus che fino a quattro mesi fa era sconosciuto”.
“L’approccio One Health – sostiene Ilaria Caputa – deve diventare il mainstream per rilevare, rispondere e prevenire efficacemente focolai di zoonosi”.
La prof.ssa Capua sta diventando dunque, a livello mondiale, il riferimento scientifico per attivare finalmente quanto auspicato da David Quammen nel suo libro…ormai introvabile: una politica di prevenzione contro i futuri virus che cercheranno di ucciderci.
Scrivendo questo contributo, vi devo confessare l’amarezza e il dispiacere di constatare come una delle migliori teste nel mondo nella ricerca virologica abbia dovuto, sì proprio dovuto, lasciare il nostro paese per un classico caso di mala giustizia, anche mediatica.
Lo ricordo, in sintesi, per coloro che se ne sono scordati e per quelli che non lo sanno del tutto.
Nell’aprile del 2014 la prof.ssa Capua ricevette un avviso di garanzia insieme ad altri 38 imputati (tutti alti funzionari ministeriali o di autorevoli istituti scientifici) con la prospettazione di una associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di virus. In particolare la Procura di Roma, inizialmente innescatrice del procedimento, ipotizzava la cessione illecita di stipiti virali a importanti aziende farmaceutiche per la produzione di vaccini veterinari, con anche lo sfruttamento illecito di brevetti.
La notizia dell’avvio del procedimento era stata pubblicata dal settimanale L’Espresso, immediatamente denunciato per diffamazione dalla prof.ssa Ilaria Capua.
Due anni dopo, nel luglio del 2016, quando la prof.ssa Capua era stata nel frattempo eletta in Parlamento nella lista Scelta Civica di Mario Monti, la Procura di Verona, che intanto era diventata competente sul fascicolo, proscioglieva la ricercatrice sul presupposto che “il fatto non sussiste”.
Dopo aver passato due anni di incubo, il 28 settembre 2016 la prof.ssa Capua lasciava la Camera dei Deputati e il nostro paese, migrando negli Stati Uniti e assumendo la direzione dell’Istituto Emerging Pathogens dell’Università della Florida
Nell’aprile del 2018 il Tribunale archiviava il procedimento per diffamazione contro L’Espresso.
Riccardo Rossotto