De mortuis nihil nisi bonum (dei morti non si dica niente, se non il bene), dicevano gli antichi romani, ispirandosi a loro volta ai filosofi greci. Questo principio, già disatteso spesso e volentieri sui social, è stato addirittura ribaltato in occasione della scomparsa, lo scorso lunedì 13 gennaio, di Oliviero Toscani. In molti commenti, non è stata ricordata la grandezza professionale del fotografo-comunicatore milanese, che è stato attaccato, anche violentemente e volgarmente, a livello personale.
In particolare i post citavano una frase che Oliviero avrebbe pronunciato in occasione del crollo del Morandi (“A chi interessa che caschi un ponte”) e una lettera in cui la figlia Olivia esprimeva su di lui giudizi poco lusinghieri (eufemismo).  E da qui cattiverie e insulti. “Da oggi il mondo sarà un po’ meno orrendo e un po’ meno maligno” (C. F.); “Persona orribile, neanche la figlia verserà lacrime” (I. G.); “Bruttissima persona, non la rimpiango” (M. M.).
E non mancano interventi articolati, con pretese da opinionista. “Gli anni ‘80 sono stati un periodo bizzarro. Uno sconosciuto fotografo con un’immensa autostima approda in Veneto, scatta una foto da pervertito e diventa ricco e famoso esclusivamente per questo e per la sua vanvera logorroica”, ha scritto P. L. , evidentemente senza sapere che lo “sconosciuto” Toscani negli anni ‘80 aveva già realizzato, tra l’altro, una celeberrima (all’epoca) campagna per i Jeans Jesus e aveva lavorato per le riviste top della moda, prima tra tutte Vogue.
Ho poi riscontrato con rammarico che ancora una volta l’Italia (ma penso accada anche in altri Paesi) si è divisa, in una logica da stadio, tra due tifoserie. E quella contro Toscani appartiene al lato destro, per utilizzare una catalogazione ormai anacronistica e priva di significato, ma che, seppure impropriamente, rende l’idea. “Uno str.nzo che per fare vendere maglioncini e pur di arricchirsi non ha esitato a dissacrare, offendere, sbeffeggiare, ecc. TUTTI i valori, l’etica, la morale della nostra cultura millenaria! Un gran parac.lo per menti deboli”, ha scritto M. R. Mentre ancora più esplicito è stato W. B. “Era un presuntuoso comunista, la cui tribù prosperava (ed ora sopravvive) tra Montescudaio e Capalbio. Ma sono in via d’estinzione”.
Rispetto i pareri di tutti, ma (a parte il cattivo gusto di accanirsi contro chi è appena morto e non può replicare) di un artista andrebbe ricordata la sua arte, quello che lo ha fatto considerare un genio, non sue vicende personali. Non intendo certo tenere una lezione di comunicazione, ma mi sembra giusto dare qualche elemento di valutazione. Nei miei anni di direzione di riviste del Gruppo Mondadori, quando le fotografie (all’epoca non digitali) costituivano un elemento fondamentale, ho pubblicato lavori di Maestri come Richard Avedon, Bob Krieger, Bruno Bisang, Giorgio Lotti. Ho quindi l’esperienza per poter affermare che Oliviero è stato un fuoriclasse della fotografia.
Ma a mio avviso non è questa la chiave della sua grandezza. La genialità di Toscani si è manifestata ancor più come comunicatore che come fotografo (anche se è difficile stabilire i confini di queste due attività) con le pluridecennali campagne Benetton. Era l’inizio degli anni 80. Il Made in Italy stava esplodendo. Re Giorgio (Armani) e altri stilisti trainavano nella leggenda la moda italiana. Il colosso (almeno rispetto al settore) Benetton avrebbe voluto cogliere la scia, tanto che aveva appena aperto un negozio nella mitica Madison Avenue di New York.
Il problema era che i prodotti erano “da battaglia”. Ricordo che io, con alcuni amici del Liceo Manzoni di Milano, li indossavamo per andare a scuola e, finite le lezioni, li tenevamo anche per tirare due calci al pallone nei vicini giardinetti di via Dezza. Insomma, i golfini Benetton non erano certo considerati capi di pregio. Non volendo toccare più che tanto, né il prodotto, né la distribuzione (esempio all’epoca vincente di franchising), la casa veneta aveva problemi di comunicazione.
Oliviero, ebbe l’idea, appunto geniale, di una campagna, “United colors of Benetton”, in cui non si parlava del prodotto in sé, ma si mitizzava il marchio, legandolo a temi “alti”, come la pace, la lotta al razzismo, all’omofobia, alla mafia, all’Aids. In questo modo, anche Benetton, con i suoi maglioncini “seriali” entrava nell’immaginario collettivo, come uno dei protagonisti della leggenda del Made in Italy. Insomma, il grande Oliviero aveva sublimato la filosofia della “pubblicità mitica” teorizzata dal semiologo Jean-Marie Floch: “Se non puoi parlare delle caratteristiche del prodotto, e se questo non ha appeal, lega la sua immagine, anche in assenza di ogni correlazione oggettiva, a una filosofia o a uno stile di vita”.
Milo Goj

Milo Goj

Milo Goj, attuale direttore responsabile de L’Incontro, ha diretto nella sua carriera altri giornali prestigiosi, come Espansione, Harvard Business Review (versione italiana), Sport Economy, Il Valore,...

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