In occasione della celebrazione della giornata contro la violenza sulle donne, il Museo del Risparmio di Torino, sempre molto attivo nelle iniziative a favore delle donne, con la collaborazione di altri partner istituzionali quali l’Inps, la Banca D’Italia e gli Stati generali delle donne, ha organizzato una serie di incontri di riflessione sulle varie forme di violenza, con focus sulla violenza economica e sull’educazione finanziaria quale mezzo per contrastarla. La violenza economica è forse la forma più subdola tra le varie tipologie, meno evidente di quella fisica e psicologia, ma non meno dannosa.
La violenza economica è l’arma più subdola
Con i vari ospiti si è parlato di varie iniziative nate di recente per contrastare il fenomeno della violenza di genere, tra i quali quello di aver distribuito ai Presidenti dei Tribunali, agli Ordini professionali, ai Ministeri e all’Università, un estratto della brochure della Convenzione di Istanbul, che sancisce il divieto di ogni forma di violenza sulle donne, ma che purtroppo non è abbastanza conosciuta. Il primo passo da fare per contrastare la violenza di genere, da parte delle donne, è la consapevolezza, intesa come percezione del proprio valore, in quanto la violenza psicologica ha come presupposto un disconoscimento del valore femminile.
L’importanza delle parole
Le donne devono essere le autrici della propria vita e devono scriverne il copione. Talvolta anche la rabbia è utile, se non sconfinate a sua volta nella violenza e intesa nel senso di contrario della paura che è bloccante. Anche le parole, come sottolineato dalla scrittrice Cristina Obber, hanno la loro importanza culturale, in quanto raccontano chi sono le donne. Già il vocabolario Zingarelli negli anni 90 ha accennato all’uso al femminile di nuovi termini nella lingua italiana, ma solo di recente l’enciclopedia Treccani ha deciso di introdurre nuovi termini e nuovi aggettivi al femminile, in ordine alfabetico. E se ad esempio il termine “direttore” viene ancora prima del termine “direttrice”, “notaia” verrà prima di “notaio” e “bella” prima di “bello”.
Violenza anche all’interno della propria famiglia
Anche ciò costituisce un passo in avanti nell’evoluzione del concetto di parità di genere, in quanto il linguaggio deve rispecchiare le esigenze della società in evoluzione. L’ulteriore passo in avanti dovrebbe essere quello di dare la giusta dicitura ai fenomeni. Talvolta le cosiddette “avances” esplicite o le battute sessuali nei luoghi di lavoro sono vere e proprie molestie sessuali. Così come possono esserci vere e proprie violenze sessuali all’interno di una relazione sentimentale o addirittura all’interno della famiglia stessa. Le parole non sono solo forma ma che sostanza. Altro passo in avanti è il parlare e il discutere sempre più spesso della violenza di genere, ma soprattutto l’ascolto e la giusta rilevanza del fenomeno della violenza di genere, se vero è, come è stato detto, che l’attenzione è la prima forma di amore.
La vera indipendenza passa dall’economia
Quindi un altro mantra potrebbe essere quello di far sentire sempre la propria voce, stand up for yourself, per usare il termine internazionale, in aggiunta a quello delle tre P di prevenzione protezione e punizione. Nel secondo incontro il focus è stato sulla violenza economica, correlata alla mancanza dell’indipendenza economica. Annalisa Monfreda, scrittrice, giornalista – nonché direttrice del settimanale “Donna Moderna” – ha raccolto molte storie di donne arrivando a riflessioni talvolta inaspettate. E’ vero che quasi il 50% delle donne in Italia non lavora, ma anche il restante 50% occupato che gode di un proprio reddito, non è cosi’ scontato che sia economicamente indipendente. In un mondo così variegato l’indipendenza economica deve essere vista anche in chiave prospettica.
Lavorare non basta per raggiungere la parità
Talvolta invece viene valutata solo nel breve periodo, laddove ragazze giovani, non supportate dalla famiglia, rinunciano agli studi per avere un reddito immediato, non valutando che nel futuro, da donne adulte e poi mature, quel reddito potrebbe non essere più adeguato alle proprie esigenze, facendole ricadere nella trappola della dipendenza economica dal compagno. Del resto, l’indipendenza economica può essere conquistata, ma anche persa. Questo è di caso di donne che svolgono lavori che non le rappresentano e che vengono convinte dal compagno a lasciarlo per dedicarsi ai propri interessi e alla famiglia.
L’autonomia della donna fa paura
Ed ecco aprirsi le porte della gabbia del lavoro domestico, non retribuito e talvolta ancora più frustante del lavoro fuori casa seppur non adeguato. Michela Nacca, avvocatessa esperta di diritto di famiglia, fondatrice dell’associazione “Antigone”, ha preso in esame un’altra forma di violenza di genere, la violenza cosiddetta istituzionale, laddove nelle istituzioni e in particolare nei Tribunali talvolta non viene accettata l’autonomia della donna (e il suo innato istinto di protezione dei figli). Il termine, tradotto dall’espressione anglosassone ideal harassment, non è ancora molto conosciuto, ma è necessario iniziare a definire un fenomeno per evidenziarlo. Nel mese di marzo di questo anno l’Onu ha condannato alcuni Tribunali italiani per vicende di discriminazione di genere che hanno portato ad una non tutela della donna, arrivando anche all’uso del termine “tortura”.
Per mantenere un equilibrio sociale si penalizza il genere femminile
Per quanto ovvio le separazioni genitoriali, che costituiscono circa il 60% delle separazioni totali, sono le più problematiche, in particolare dopo la legge n. 54 del 2006 sulla bigenitorialità, che ha aperto la strada dell’affidamento congiunto anche a genitori – statisticamente l’uomo – violenti o addirittura abusanti. Nel 51% delle separazioni vi è una componente di violenza, ma soltanto il 27% delle vittime donne di violenza arriva alla denuncia penale (per timore di perdere il lavoro e di essere allontanata dai figli, per la lungaggine dei procedimenti giudiziari che comportano un impegno finanziario notevole e anche per la paura di non essere credute). Un breve escursus storico evidenzia che la donna ha iniziato a lavorare fuori casa all’incirca due secoli fa con la rivoluzione industriale. Ma ciò ha disturbato un equilibrio sociale, in quanto alcune donne con il lavoro fuori casa (e, quindi, con un’indipendenza economica seppur embrionale) hanno iniziato a non volere più il matrimonio e i figli (futuri operai per l’industria e futuri soldati).
Ancora troppa differenza tra salari per uomini e per donne
Per ripristinare l’equilibrio è intervenuta l’ingegneria sociale dell’epoca che, aumentando la paga degli uomini ha permesso alla donna, madre e moglie, di rimanere a casa e di occuparsi della famiglia. Tendenzialmente, chi non accetta questo equilibrio culturale creato e consolidato nel tempo, viene discriminato. Non dimentichiamo infine, che ai nostri tempi, la discriminazione di genere all’interno della famiglia, può anche consistere in un carico mentale impari, nel senso che anche se entrambi lavorano fuori casa e guadagnano, la donna è comunque quella che deve occuparsi con maggior coinvolgimento della casa, dei figli e della cura in senso lato.
Il tradimento del part time
Infine, nell’incontro svoltosi nella giornata contro la violenza di genere e con il focus sull’indipendenza economica quale mezzo per contrastare la violenza economica, la vicepresidente dell’Inps, Maria Luisa Necchi, ha ricordato come la visione di lungo termine anche in campo previdenziale sia importante per l’indipendenza economica, anche dopo il ritiro dal mondo del lavoro. Una pensione buona presuppone un lavoro continuativo, ma quando si esce dal mondo del lavoro o si sceglie il tempo parziale o si rinuncia alla carriera si subisce una perdita anche in termini previdenziali che nessuno potrà restituire. Il lavoro non è soltanto l’articolo numero uno della Costituzione, non è solo guadagno, ma è soprattutto il ruolo che si ha all’interno della società (e della famiglia).
L’indipendenza economica è ancora di poche
Una ricerca dell’Inps ha evidenziato le differenze di retribuzione tra uomini e donne a livello nazionale, riscontrabili anche nelle regioni ricche del nord est, laddove la pensione media dell’uomo è di euro 1.901 mentre quella della donna di soli euro 966, pari ad una diminuzione del 49%. Ugualmente nelle retribuzioni il gap è significativo: meno 40% circa per le operaie donna, percentuale che si riduce al di sotto del 30% per le dirigenti, notoriamente numericamente di meno rispetto agli uomini. Pure nel pubblico impiego, dove si arriva per concorso, vi è la differenza – dovuta alla diversa progressione di carriera – tra lo stipendio medio annuo dell’uomo di euro 38.099 e della donna di euro 28.250 pari ad un 26% in meno circa. Anche una ricerca del Museo del risparmio ha evidenziato, a livello nazionale un gap di genere. Solo il 37,8% delle donne, occupate o meno, si definisce economicamente indipendente e un 60% afferma che, comunque, il proprio stile di vita dipende dal partner.
Più istruite, più formate, più ostacolate
Ma forse il dato più preoccupante è quello secondo il quale solamente il 49,4% delle donne risulta occupata (su una percentuale del 52% della popolazione) e di queste ben il 31,4% lavora a tempo parziale (per motivi di cura della famiglia e non per seguire i propri hobby ed interessi come fa l’8,2% degli uomini occupati a tempo parziale). Preoccupante pure l’alta percentuale dell’80% delle donne che hanno il carico della gestione dei lavori domestici, ma soprattutto quella del 72% che ritiene congrua questa ripartizione. Sul fronte del risparmio le percentuali sono molto simili tra uomo e donna, ma solo di 35% di queste ultime investe (con una minore propensione al rischio), contro il 50% degli uomini. Infine, un’indagine sulla media OCSE nel mercato del lavoro, evidenzia un notevole gap di genere tra il rendimento finanziario netto pubblico di un investimento formativo per il conseguimento dell’istruzione terziaria – pari a $ 127.000 per gli uomini e di soli $ 60.600 per le donne – con un ritorno di beneficio sociale di $ 2,9 per i maschi e $ 2,0 per le femmine per ogni dollaro pubblico investito. Ciò significa che le donne sono più istruite e hanno investito di più nella formazione raggiungendo spesso risultati migliori, ma ciò non ha un riscontro parallelo nell’ingresso nel mercato del lavoro, dove vi è dispersione di questo patrimonio, che si traduce in un mancato ritorno dell’investimento formativo.
Per concludere, quali sono i messaggi, anche istituzionali, che emergono da tali riflessioni? La Banca d’ Italia, in persona di Riccardo de Bonis ha elaborato un progetto di educazione finanziaria di genere dal titolo: “Le donne contano“ presente su di un sito dedicato della Banca stessa, ispirato dalla consapevolezza della bassa cultura finanziaria delle donne in Italia, fanalino di coda degli altri Paesi europei. Oramai è matura la convinzione, per lo meno nel settore finanziario ma anche in alcune istituzioni, che l’indipendenza economica di genere, correlata ad una sempre più ampia cultura finanziaria, è un valido e potente mezzo per contrastare quella particolare categoria di violenza economica, non sempre slegata alla violenza psicologia e fisica.
Liliana Perrone