La trasparenza è uno dei cardini della responsabilità sociale. Questo principio vale in tutte le situazioni, ma assume un aspetto e un peso particolare nel sistema dell’arte. Qui la trasparenza si traduce soprattutto nelle certezza dell’autenticità di un’opera. Certezza che per molti anni è mancata, creando gravi problemi a chi, in perfetta buona fede, aveva comprato un dipinto o una scultura, convinto che fosse originale.
Ma facciamo un salto indietro nel tempo e concentriamoci sull’arte visiva moderna (all’incirca dall’inizio del Novecento al 1980), il periodo storico di gran lunga più importante per volume di affari e interesse dei collezionisti. Fino agli anni Sessanta, chi comprava un’opera di solito si fidava del gallerista o di un’altra tipologia di venditore, e non richiedeva alcun certificato. Oggi la situazione è diametralmente opposta.
Un’opera sprovvista di autentica, perlomeno dal valore superiore alla soglia psicologica di mille euro, è pressoché invendibile. Ma anche la storia delle certificazioni ha subito varie vicissitudini, prima di arrivare alla situazione attuale, improntata appunto ai principi della trasparenza e della tutela del pubblico.
L’origine dei certificati
Inizialmente le autentiche erano costituite da fotografie in bianco e nero o a colori, preferibilmente di cm. 18×24. Sul retro, veniva posta la firma dell’autore o di un esperto accreditato dal mercato, il più delle volte con una breve descrizione dell’opera. Il problema è che anche un’autentica può essere falsificata. Sino a quando l’autore o l’esperto erano in vita, chi comprava poteva verificare direttamente con loro che tutto fosse in regola. Ma se morivano, la stessa “autenticità dell’autentica” poteva essere messa in discussione.
Due casi concreti. Le autentiche dei quadri di de Chirico firmate dal Pictor Optimus (scomparso nel 1978) non sono considerate sufficienti. Così come quelle del professor Francesco Meloni, relative a Mario Sironi. Il professore era considerato il più autorevole e attendibile intenditore del Maestro sardo e i suoi certificati erano considerati “oro colato”. Purtroppo, dopo la sua morte, avvenuta pochi anni fa, le certificazioni di Meloni non rappresentano più un documento di riferimento.
Gli archivi
Per rimediare a questa incertezza, sul mercato si stanno affermando gli archivi. A una singola persona subentra cioè una struttura, composta da più soggetti. Di solito ne fanno parte gli eredi dell’artista e critici autorevoli. I certificati di autenticità (rilasciati in almeno due copie, una per il collezionista e una per l’archivio) vengono numerati e catalogati. Chi compra un quadro o una scultura può così verificare se il certificato che l’accompagna è autentico.
Il mercato apprezza il lavoro degli archivi (anche se non manca chi si lamenta del loro potere assoluto nel sentenziare la veridicità di un’opera) che, dando trasparenza al mercato, valorizzano l’attività di un artista. Mario Schifano, ad esempio, è sempre stato considerato un grande Maestro, padre della pop art mondiale insieme ad Andy Warhol e a Roy Liechtenstein, con cui aveva fra l’atto partecipato, nel 1962, alla mitica mostra “New Realists”, presso la Sidney Janis Gallery di New York.
Il caso Schifano
Eppure i prezzi delle sue opere si mantenevano modesti, a causa dell’incertezza sulla autenticità di molte sue opere. Grazie alla costituzione, nel 2003, dell’Archivio Mario Schifano, presieduto da Monica De Bei Schifano, vedova dell’artista, il mercato è stato ripulito. Risultato: i prezzi sono saliti. Lo scorso ottobre il record d’asta è stato battuto due volte ed è arrivato a superare quota 2,3 milioni di euro (Sotheby’s, Parigi). Ora c’è grande attesa per l’uscita del primo volume del Catalogo ragionato dell’opera pittorica del Maestro, “Mario Schifano Catalogue Raisonné ‘60”. Il volume raccoglierà i lavori degli anni Sessanta e costituirà un ulteriore e prestigioso punto di riferimento per operatori del mercato e collezionisti.