Come ha raccontato in modo efficace Riccardo Rossotto, in un articolo apparso su L’Incontro il 10 giugno scorso (Cuneo fiscale questione nazionale). “Tra inflazione, recessione, aumento delle bollette energetiche, possibili carestie, ritardi e blocchi delle catene di produzione e fornitura di molti prodotti, non si sa più dove sbattere la testa. Soprattutto non si riesce a capire come fronteggiare questo uragano. Il tema centrale e più delicato dal punto di vista economico e sociale, è quello della diminuzione delle capacità di acquisto delle classi medio-basse, di un gran numero di lavoratori salariati, quindi”
Mass media, i soliti articoli si ripetono da 50 anni
Le soluzioni proposte da diversi media e opinionisti gravitano su cuneo fiscale e salario minimo. Aspetti di sicura rilevanza. C’è però da dire che, al netto di aggiustamenti dovuti all’evoluzione della società (e ovviamente all’arrivo dell’euro e al ruolo della Ue) rileggo gli stessi articoli da decenni. In altre parole, con poche modifiche, un “pezzo” pubblicato in questi giorni lo si sarebbe potuto leggere ai tempi del primo shock petrolifero del 1973.
Forse sto indulgendo al mio gusto per iperbole e paradosso, ma la sostanza è quella.
E mentre ci si arrovella su uno o due punti da tagliare sui costi “fiscali” sul lavoro (perdonate l’approssimazione), si dà poco spazio a quelli che sono i veri macigni che bloccano il Paese. La spesa pubblica e la criminalità organizzata.
Il falso obiettivo che produsse zero risparmi
Sulla prima in passato si è parlato di più, tanto da formalizzare la Spending review. Che ha prodotto però risultati irrilevanti, con proposte a volte da cabaret. Come quando nel 2014 Carlo Cottarelli, nominato da Enrico Letta commissario straordinario della spesa pubblica, riprese la proposta del Governo Monti (a suo tempo sonoramente bocciata) di ridurre l’illuminazione stradale. Il che avrebbe prodotto un risparmio pari a 100 milioni di euro, meno del prezzo di mercato dei tre difensori centrali dell’Inter.
Per tagliare lo 0,1% della spesa pubblica, pari appunto a mille miliardi insomma, si rischiavano di incrementare incidenti stradali e atti di criminalità, con costi sociali ben più alti. Senza contare la sensazione di sicurezza e di benessere psicofisico che dà una strada ben illuminata. Fu questa la goccia che fece traboccare la pazienza di Matteo Renzi, subentrato a “Enrico” alla Presidenza del consiglio che, ricordando a Cottarelli che non doveva fare il sindaco, nel novembre del 2014 lo accompagnò alla porta.
Quanto pesa il costo della criminalità sul bilancio dello Stato
Ma ancor più del macigno della spesa pubblica, sui giornali viene ignorato il costo della criminalità. Il fatturato delle varie mafie non è facilmente quantificabile, in quanto i dati non sono ovviamente ufficiali, ma solo stimati. La cifra che ricorre di più, proposta anche da Eurispes, è di 220 miliardi l’anno, oltre il 10% del Pil. L’entità dipende poi anche dai parametri adottati. In questi affari sporchi vanno conteggiate, almeno in parte, anche le attività lecite, ma controllate dalla malavita? Oppure soltanto quelle completamente illegali? La scuola di pensiero che va per la maggiore opta per una via di mezzo.
Vanno cioè conteggiate solo le irregolarità delle attività nel complesso lecite, prima tra tutte, il lavoro nero. Se a queste voci aggiungiamo il giro d’affari della malavita spicciola, cioè di quella non affiliata, se non occasionalmente, a Mafia, Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, i business sporchi sfiorerebbero quota 300 miliardi di euro. Con una redditività da capogiro. Qualche anno fa, il Sole 24 Ore aveva stimato nel 70% abbondante il rapporto utile su fatturato degli affari della malavita organizzata.
Una “collusione” inaccettabile
Questo giro d’affari, che coinvolge da 300 a 500 mila persone (al netto dei lavoratori in nero, pari a circa 2,7 milioni di persone), si traduce in un’evasione fiscale di circa 80 miliardi l’anno. Una cifra oltre 10 volte superiore a quella dovuta all’evasione di artigiani, piccole imprese, negozianti e liberi professionisti. Un dato fonte Contribuenti.it, che conferma sostanzialmente un’inchiesta pubblicata nel 2012 sul Blog di Beppe Grillo. Ci sarebbe da chiedersi perché ogni volta che si parla dei 200 miliardi stimati di evasione fiscale, i media mainstream creino un clima d’odio contro baristi, dentisti e bottegai vari, additati come i principali colpevoli di questo scempio, mentre in realtà inciderebbero per meno del 5%. Degli 80 miliardi di evasione malavitosa, invece, quasi non viene fatta menzione
Il danno di Mafie & Co all’economia del Paese assume anche altre forme. Ad esempio, secondo Coldiretti cresce il numero di locali della ristorazione detenuti dalla malavita organizzata. Avrebbero superato quota 5 mila, per un giro d’affari in crescita, pari a una cifra compresa tra 20 e 25 miliardi. Anche ammesso che questi pubblici esercizi svolgano il lavoro nella legalità, sarebbero colpevoli di concorrenza sleale e danneggerebbero in ogni caso le altre strutture presenti sul mercato. Basti pensare all’accesso al credito, dramma per molti negozianti onesti. I malavitosi grazie alle grandi risorse di cui dispongono, non sono afflitti da questo problema.
Di fronte a questi dati (se ne potrebbero citare anche altri), che mostrano l’enorme danno arrecato dalla malavita al Paese, forse non inferiore a quello di un cuneo fiscale inappropriato, pesa il silenzio pressoché assoluto sul tema nei dibattiti di economisti e politici.
Milo Goj