È quasi la regola. A ogni commemorazione dell’Unità d’Italia viene pubblicato un libro che riscrive la storia di quel periodo con particolare riferimento al Regno dei Borboni di Napoli e alla sua annessione al Regno di Sardegna dei Savoia. Su questa vicenda storica si è scritto moltissimo e, come è italico costume, sulle ragioni e sugli esiti di questa storia si fronteggiano due visioni inconciliabili.
I cosiddetti neoborbonici, da una parte, che denunciano una guerra non dichiarata da parte del Regno di Sardegna accusato di aver aggredito proditoriamente il Regno di Napoli con mire di conquista; dall’altra quelli che rivendicano l’agognata Unità d’Italia come la realizzazione di un’antica aspirazione sostenuta dalla volontà del Paese che infrange l’oscurantismo di chi si opponeva.
Il titolo di un recente libro chiarisce in modo plastico la divisione netta che delimita i due campi: “Italiani per forza. Le leggende contro l’Unità d’Italia che è ora di sfatare” di Dino Messina ed edito da Solferino.
Se a 160 anni dall’Unità si sente ancora il bisogno di scrivere libri su come quell’unità fu ottenuta e se si sente il bisogno di sfatare leggende che ancora avvolgono quegli avvenimenti, significa che tutto chiaro non è, tutto storicamente incontrovertibile non è.
Sarebbe magnifico poter affermare che l’Unità d’Italia fu un movimento di popolo cosciente di quello che faceva. Sappiamo che così non fu, il popolo non partecipò. Proviamo a mettere in fila i fatti.
Scrive Ezio Mauro, su Robinson del 13 marzo 2021: “Il 17 marzo 1861, Cavour presenta il disegno di legge 4671 in un solo articolo: Il re Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di re d’Italia”. “Il deputato Brofferio chiede di aggiungere che: il re è proclamato dal popolo. Cavour lo invita a ritirare la proposta”.
Cavour sapeva come si erano svolti i fatti e sapeva che il popolo, per la gran parte aveva assistito e non partecipato e quindi non aveva acclamato alcun re.
Ancora Mauro scrive: “Si vota: presenti 294, favorevoli 292, due deputati, confusi, depositano nell’urna la palla di colore sbagliato. Il papa protesta e affida la sua causa a Dio. Vienna dice di non aver mai riconosciuto il Regno d’Italia. Napoleone III ricorda che nelle vicende italiane bisogna procedere doucement. A Firenze un pizzicagnolo espone il busto del Re circondato da salami, figura gastronomica irriverente. Perché? Lui è il re – spiega – noi sudditi i salami “.
Il popolo sembrava avere le idee chiare. Il libro citato sostiene che la partecipazione degli italiani all’Unità d’Italia fu più numerosa di quella che affermano i neoborbonici. I numeri veri non si conoscono e pertanto qualunque indicazione è opinabile. Alcuni numeri sono certi e potremmo procedere per deduzione. Il Regno di Sardegna prima dell’unità contava 5 milioni di sudditi. Il Regno d’Italia al momento dell’unificazione contava 21 milioni di sudditi. Quanti di questi parteciparono agli eventi che condussero all’Unità? Pochi, azzardo pochissimi rispetto al totale dei sudditi. Una verifica può derivare dal conteggio dei partecipanti ai vari plebisciti. Siamo nell’ordine delle centinaia di migliaia che grosso modo corrisponde alla popolazione definita élite borghese e letterata.
Sostenere che in quel processo parteciparono gli italiani come li intendiamo oggi è una bugia. Gli abitanti dello stivale erano per la stragrande maggioranza analfabeti e ognuno parlava il suo dialetto. Per tentare di ridurre questa barriera linguistica, la legge Casati del Regno di Sardegna fu estesa nel 1861 al Regno d’Italia e introdusse l’obbligo scolastico elementare impartito dai Comuni. La legge non prevedeva sanzioni per i genitori inadempienti che dovevano necessariamente lavorare per sostenere la famiglia e i figli dovevano lavorare anche loro. Inoltre, a questa legge si opponevano i grandi proprietari terrieri perché ledeva i loro diritti di disporre di tutto il tempo dei loro coloni. Per questo la legge non risolse il problema della lingua. Ancora nel 1887, 16 anni dopo l’unificazione, la situazione delle barriere linguistiche non era stata risolta. A Dogali in Eritrea, una colonna del regio esercito italiano fu annientata dalle truppe del Ras Alula Engida. Per avere un’idea di come fosse organizzato il regio esercito è sufficiente leggere l’ordine di marcia di quella colonna: “Ognuno si disponga con la propria gente”.Significava che i soldati erano assemblati secondo la lingua comune, dialetto, e comandati da un ufficiale inferiore loro conterraneo e di stesso dialetto. Tra loro non si capivano.
Questa era la situazione degli italiani che si protrasse per tutto il XIX secolo e parte del XX secolo. Potrebbe sembrare esagerato ma il problema della lingua comune fu decisamente risolto dall’avvento della televisione. Nel 1861 si realizzò l’unificazione geografica dell’Italia. Dell’unificazione degli italiani ne stiamo ancora parlando. Su quella unificazione geografica bisognerebbe evidenziare alcuni aspetti che non fanno parte degli argomenti dei neoborbonici e dei loro avversari.
L’Unità d’Italia fu essenzialmente il risultato delle logiche di potere delle potenze che nel XIX secolo dominavano l’Europa. Nel 1815, a Vienna, sopravvissuti al ciclone Napoleone I, lo zar di Russia, l’imperatore Austro-Ungarico, il re di Prussia e il re di Francia, con la regia di Metternich portarono indietro le lancette dell’orologio della storia e diedero vita alla Restaurazione che significava rimettere le cose come erano prima del 1789. Non funzionò. I primi sussulti si ebbero nel 1821, più evidenti furono nel 1831. Nel 1848 cominciarono le rivoluzioni e le sommosse e quella data entrò nel linguaggio popolare (succede un “quarantotto”). Intanto in Francia aveva preso il potere Napoleone III, che quel repubblicano di Victor Hugo definì: il piccolo. Napoleone III nutriva mire egemoniche sull’Europa e si preparava ad approfittare dei segni di decadenza dell’Impero Austro-Ungarico che veniva scosso dalle sommosse delle varie etnie che componevano quel vasto impero, compresa quella italiana. Questo scenario veniva monitorato attentamente dalla Gran Bretagna che non aveva preso parte al congresso di Vienna, ma era attentissima ai fatti del continente. In questo contesto va inserito il nostro Risorgimento, in particolar modo a partire dal 1859 e dalla nostra Seconda guerra di indipendenza.
L’idea di Cavour non era l’Unità d’Italia, ma l’ingrandimento del Regno di Sardegna con l’annessione del Lombardo-Veneto strappato a Vienna. Nel 1859 Cavour con il determinante aiuto di Napoleone III ottenne solo la Lombardia, il Veneto arriverà nel 1866 con altre alleanze. L’indebolimento degli Asburgo di Vienna e la crescita del potere di Napoleone III in Europa non andava bene alla GranBretagna che iniziò a manovrare cercando di far crescere in Italia uno Stato che potesse contenere nel Mediterraneo la crescente potenza francese.
Per la Gran Bretagna il Mediterraneo era un’area strategica perché consentiva di arrivare in India più velocemente che facendo il periplo dell’Africa. Questa visione strategica aveva portato il Regno Unito ad occupare Gibilterra nel 1704, Malta nel 1802, Aden, in fondo al mar Rosso, nel 1840 e infine Suez nel 1882. Dopo questa data si poteva arrivare a Bombay solo navigando ed eliminando la carovane nel deserto. Basta guardare una carta geografica.
Il Regno Unito non dichiarò guerra a nessuno, ma alcuni uomini politici tra cui lord Palmerston e lord Acton misero in atto una vera e propria campagna di denigrazione contro i Borboni di Napoli. Questa dinastia che risaliva al 1734, dai tempi della Repubblica Napoletana del 1799 era seduta dalla parte sbagliata della storia. Un regno chiuso in se stesso, negli ultimi tempi senza alleati, neanche l’imperatore austro-ungarico con cui avevano legami di famiglia. Il loro riferimento esterno era il papa con la sua difesa del potere temporale. I Borboni si convinsero che i moti, i fermenti, le rivoluzioni che avevano attraversato il regno, fossero accidenti che potevano essere assorbiti senza conseguenze. Non capirono il momento storico e dovettero soccombere ai movimenti tellurici della storia che non seppero prevenire. Si trovarono da soli a contrastare le logiche politiche delle grandi potenze e in particolare quelle di Francia e Gran Bretagna che per ragioni diverse manovravano contro l’ordine esistente in Europa.
Cavour, senza mai dichiarare di volere l’Unità d’Italia, si inserì in questo scenario e mantenne una posizione ambigua e defilata fino a quando Garibaldi mise tutti di fronte al fatto compiuto della conquista del Regno di Napoli. La fine di quel regno era scritta. Da qui in poi si dibatte sul rapporto tra vincitori e vinti. È una storia controversa e ognuno accampa le sue ragioni. Forse la cosa migliore sarebbe metterci una pietra sopra e tutti operare per ottenere non solo l’unità fisica della stivale ma anche l’amalgama degli italiani che ribollono dentro lo stivale.
Infine un’ultima considerazione. Nel libro citato, l’autore, con i documenti da lui rinvenuti, dimostra che nel famigerato carcere-fortezza di Fenestrelle i morti di quei nemici dell’esercito borbonico, o di quei briganti meridionali, o di quelli che si opposero a vario titolo al nuovo che si imponeva, furono solo 40 e non centinaia o migliaia come sostengono i neoborbonici. È proprio questo il dramma della polemica che divide le due correnti di pensiero.
Non è questione di numeri, fosse stato solo uno il morto di Fenestrelle, quello era un italiano che la pensava diversamente e andava trattato come un italiano dissenziente e non come un nemico o peggio come un traditore. Questa è la vergogna di Fenestrelle, non il numero dei morti. L’idea che gli italiani del Regno di Napoli non fossero italiani.
Fidelio Perchinelli