Il suo anniversario è rimasto un po’ schiacciato dalle numerose manifestazioni organizzate per il centenario della morte di Giacomo Matteotti. È passato quasi inosservato ai più, ai non addetti ai lavori. Eppure, Luigi Einaudi (nato a Carrù proprio 150 anni or sono, il 24 marzo 1874) ha ricoperto un ruolo fondamentale nella storia del Novecento del nostro Paese. È considerato giustamente uno dei padri fondatori della Repubblica italiana. Il suo esempio comportamentale, le sue lezioni di economia, la sobrietà della sua figura hanno fatto di lui uno dei giganti del nostro zoppicante e bizzarro Paese.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha ricordato così: “Costruttore tra i più importanti della nostra democrazia, figura di elevato prestigio internazionale che aiutò l’Italia nel dopoguerra riconquistare la dignità perduta con il fascismo sottolineando inoltre il grande debito che la comunità nazionale ha verso questo padre della patria… E la ricchezza del patrimonio di pensiero, di azione politica, di equilibrio istituzionale, di coerenza personale che ci ha lasciato”.

Ad un secolo e mezzo dalla sua nascita e a oltre 53 anni dalla sua morte (30 ottobre 1961) di lui si ricordano soprattutto gli anni del dopoguerra quando rivestì i ruoli di Governatore della Banca d’Italia (1945-1948) e contemporaneamente di ministro (prima delle Finanze, del Tesoro e poi del Bilancio nel IV governo di De Gasperi: 1947-1948) e poi di secondo Presidente della Repubblica italiana (dal 12 maggio 1948 all’11 maggio 1955).

Con lui al Quirinale si succedettero a Palazzo Chigi come Presidenti del Consiglio, De Gasperi (1948-1953), Pella (1953-1954), Fanfani (1954) e Scelba (1954-1955). Credo che Luigi Einaudi si meriti un ricordo più completo ed accurato di quanto fece per l’Italia, anche prima, dalla vigilia dell’avvento del fascismo, nel periodo mussoliniano e, infine, dopo, quale Presidente della Repubblica. Una memoria che evidenzi quanto sia ancora di grande attualità oggi la teoria einaudiana di un modello economico che combini i principi di un sano liberalismo di mercato condito da una visione sociale della società, proprio quando il comunismo è fallito e il liberismo selvaggio ha mostrato tutti i loro limiti.

La lezione di Einaudi va riletta e rimeditata proprio per la sua straordinaria modernità. Lo faremo ripercorrendo le tappe più importanti della sua prestigiosa carriera. Il futuro Presidente nasce in Piemonte, a Carrù, in provincia di Cuneo. A 12 anni diventa improvvisamente orfano di padre e la famiglia si sposta a Dogliani dallo zio, notaio. Einaudi era cattolico praticante ma rispettoso delle altre fedi religiose. Fu educato secondo quelli che erano i principi vigenti in quel Piemonte agricolo di fine secolo: i mantra educativi erano: “Aiuta te stesso“ e “Volere è potere“. Laureato in giurisprudenza a Torino, a soli vent’anni, iniziò la sua attività di giornalista proprio sul quotidiano locale La Stampa.

Nel giro di poco tempo divenne uno dei maggiori economisti liberali italiani. Agli inizi del novecento iniziò una collaborazione con la rivista “Critica sociale“ di Filippo Turati, confrontandosi sempre di più con il mondo del riformismo socialista: la sua dottrina risentirà parecchio di quel periodo di collaborazione con il leader del Partito Socialista. Nel 1902 fu chiamato dall’università di Torino dove poi gli fu assegnata la cattedra definitiva. Dal 1903 divenne collaboratore fisso del Corriere della Sera, diretto allora da Luigi Albertini: un incarico che continuò per tutta la sua vita.

Accese furono le sue polemiche giornalistiche nei confronti del Presidente del Consiglio di quel tempo, Giovanni Giolitti. Einaudi lo accusava di utilizzare il potere per mediare continuamente tra le parti sociali e garantire in tal modo una costosa stabilità di governo a vantaggio di troppi “clienti” e di troppi opportunisti. Nel biennio 1914-1915 si schierò con gli interventisti e nel 1919 fu nominato da Vittorio Emanuele III senatore del Regno. Appoggiò, all’inizio, il governo Mussolini, nel novembre del 1922, ritenendo che potesse rappresentare una soluzione transitoria per far cessare la guerra civile che regnava in tutto il Paese. Scrisse numerosi saggi di economia politica mirati a far comprendere alle classi dirigenti la necessità di ridurre drasticamente la spesa pubblica clientelare, di ripristinare il prestigio dello Stato; di assicurare i servizi pubblici essenziali alle classi più povere; di non dare tregua alla lotta alle mafie e alle camorre, tagliando le unghie ai corporativismi speculativi (parlava di imprenditori pescicani e di sindacati parassitari).

L’attuale Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, ne ha ricordato così la summa del suo pensiero economico: “Questo è stato l’insegnamento di Luigi Einaudi – ha detto Panetta – favorire una concorrenza priva di eccessi; gestire con prudenza le finanze pubbliche, impegnandosi per stimolare la crescita e ridurre il debito; preservare la stabilità monetaria; spostare il concetto di sovranità dal livello nazionale in favore di un’Europa più forte, aperta e solidale, che conti nel mondo”. Einaudi si assunse insomma il compito e ne sentì la forte responsabilità di delineare un metodo di lavoro per i suoi successori, tenendo conto delle caratteristiche peculiari del nostro Paese.

Tornando ai suoi inizi come professore all’università di Torino, Einaudi conobbe il giovane editore Piero Gobetti e pubblicò una raccolta di saggi per la sua casa editrice. È rimasto famoso l’aneddoto riportato recentemente alla ribalta da Aldo Cazzullo: “Luigi Einaudi era uno dei professori più apprezzati e temuti dell’università di Torino. Un giorno gli entrò in ufficio uno dei suoi studenti. Una matricola. Era il figlio di un droghiere, che aveva una bottega nel centro di Torino. Quel ragazzo chiese a Einaudi se volesse scrivere un articolo per una sua piccola rivista. Specificò di non poter pagare. Einaudi fu attratto dalla sua intelligenza e anche dal suo coraggio. E rispose che avrebbe scritto molto volentieri l’articolo, senza compenso. Il ragazzo si chiamava, appunto, Piero Gobetti. I due protagonisti di quell’episodio iniziarono una relazione amicale che durò fino a quando Gobetti non morì per le percosse inflittagli dalle squadracce fasciste”.

Pur essendosi illuso, come molti altri liberali, che il fascismo potesse essere controllato e ricondotto nel perimetro della democrazia, si ricredette presto di questo suo auspicio, e fece “marcia indietro” iniziando a scrivere articoli e saggi critici nei confronti delle iniziative del governo di Mussolini in campo economico. Nel 1938 fu tra i 10 senatori che votarono contro la legge “per la difesa della razza italiana”. Avversò sia l’antisemitismo sia l’alleanza che Mussolini concluse con Adolf Hitler.

Il 25 luglio 1943, alla caduta del regime, Einaudi fu nominato rettore dell’Università di Torino. Dopo l’8 settembre, preso atto di essere ricercato dalla polizia di Salò che aveva anche arrestato due dei suoi figli, decise di auto-esiliarsi a Lugano continuando a collaborare con diverse riviste economiche italiane. Durante l’esilio approfondì la sua visione sull’Europa, auspicando la nascita di una Federazione fra gli Stati che avrebbe potuto permettere la fine dell’incubo di altri conflitti nel continente. Insomma, anche in questo pensiero c’è tutta la straordinaria capacità visionaria del versatile professore di economia, ma anche giornalista e politico.

Il 4 gennaio 1945 fu nominato governatore della Banca d’Italia: fu proprio Einaudi a nominare a sua volta Direttore Generale Donato Menichella che ebbe un ruolo fondamentale con lui nella ricostruzione del Paese. Fin dall’inizio del suo mandato tracciò le linee della sua concezione di liberalismo: “Quando al figlio del povero – scrisse – saranno offerte le medesime opportunità di studio e di educazione che sono possedute dal figlio del ricco; quando i figli del ricco saranno costretti dall’imposta a lavorare, se vorranno conservare la fortuna ereditata; quando siano soppressi i guadagni privilegiati derivanti da monopolio, e siano osservati e onorati i redditi ottenuti in libera concorrenza con la gente nuova e la gente nuova sia tratta anche dalle file degli operai e dei contadini, oltre che dal medio ceto; quando il medio ceto comprenda la più parte degli uomini viventi, noi, allora, non avremo una società di uguali, no, che sarebbe una società di morti, ma avremo una società di uomini liberi”.

Il compito che gli era stato assegnato in quel drammatico immediato dopoguerra sembrava impossibile: il governo italiano era in un regime di “amministrazione controllata” da parte della Commissione Alleata di Controllo. L’Italia, soprattutto quella meridionale, era invasa dalle “amlire”, la nuova valuta stampata dagli alleati. La moneta circolante era quasi 20 volte superiore a quella dell’anteguerra. L’inflazione galoppava. Il prodotto interno era dimezzato. La popolazione alla fame. I partiti del CLN litigavano continuamente e la gestione dell’economia sembrava davvero una “mission impossible”. Luigi Einaudi incominciò il suo lavoro con grande modestia e sobrietà. Dopo il viaggio negli Stati Uniti, nel 1947, il Presidente del Consiglio De Gasperi lo volle nel governo nominandolo Vicepresidente del Consiglio e Ministro del Bilancio, confermandolo contemporaneamente alla guida della Banca d’Italia.

Sommando queste cariche gravose Einaudi poté concretamente iniziare la sua quotidiana battaglia per la ricostruzione di un Paese distrutto materialmente ed eticamente. Invece di promettere velleitarie soluzioni legate al consenso a breve ma anche alla impossibilità realizzativa, si concentrò su interventi realisticamente possibili. Doveva, innanzitutto, ristrutturare un edificio occupato da persone che non potevano essere licenziate: ci riferiamo alla burocrazia statale, praticamente non epurata. In un paio d’anni, con la fiducia dei mercati anche internazionali sulla serietà del suo approccio pragmatico, le speculazioni si esaurirono, l’inflazione si ridusse a indici accettabili (dal 62% al 5,8% nel biennio 1947-1948) con la contestuale ripresa della produzione e del mercato, certo favorita anche dagli enormi prestiti americani erogati all’interno del piano Marshall.

L’obiettivo di Einaudi era quello di ricostruire la classe media non gravandola di tasse insopportabili. Pur dichiarando la sua fede monarchica (anche alla vigilia del referendum del 2 giugno 1946) fu uno dei più importanti architetti della nascente Repubblica italiana, fondata sul lavoro e sulla tutela del risparmio. I risparmiatori italiani dovevano diventare la spina dorsale del Paese, quella che avrebbe rappresentato il trampolino di lancio per la ricostruzione. Il risparmio doveva essere tutelato contro le speculazioni perché soltanto così l’Italia avrebbe potuto risollevarsi. Fu eletto all’Assemblea costituente e scrisse che la sua più grande soddisfazione fu l’approvazione dell’articolo 81 della Costituzione quello che recita: “con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.

Nel maggio del 1948, al momento delle elezioni del Presidente della Repubblica (De Nicola era transitoriamente il Presidente in carica dal giugno del ‘46), visto il fallimento della candidatura di Carlo Sforza, una figura troppo divisiva per quella carica di garanzia, fu proprio Giulio Andreotti, su incarico del Presidente del Consiglio De Gasperi a proporre ad Einaudi la candidatura alla Presidenza della Repubblica. Dei suoi sette anni al Quirinale lasciò una memoria scritta in due opere: la prima intitolata “Lo scrittoio del Presidente” e la seconda “Prediche inutili”.

Probabilmente era un vezzo, ma leggendo “Prediche inutili” si ha proprio la sensazione che Einaudi volesse fissare i punti fondamentali per lo sviluppo civile e pacifico del Paese, sapendo che sarebbero risultate probabilmente… parole al vento! Secondo Einaudi: “La concezione storica del liberismo dice che la libertà non è capace di vivere in una società economica nella quale non esista una varia e ricca fioritura di vite umane vive per virtù propria, indipendenti le une dalle altre, non serve di un’unica volontà. Senza la coesistenza di molte forze vive di linfa originaria non esiste società libera, non esiste liberalismo”.

Si confrontò spesso con Benedetto Croce sulla differenza fra liberalismo e liberismo, due posizioni non così inconciliabili come potrebbero apparire: “Il liberismo è essenziale per una società libera, perché a cosa servirebbe la libertà di stampa se tutte le tipografie fossero di proprietà dello Stato?”. Rappresentò dunque un pensiero liberale che si era arricchito della sua esperienza di collaboratore della “Critica sociale” di Filippo Turati. Un pensiero liberale che difendeva il libero mercato ma responsabilizzava lo Stato a regolarne una equa disciplina. Difendeva la concorrenza immaginando però un’Autorità di garanzia contro i monopoli e i trust.

Fu anche un grande difensore delle prerogative del Presidente della Repubblica. Pragmatico e minimalista era un uomo che credeva in modo rigoroso nelle istituzioni senza essere un uomo politico in senso stretto. Era guidato da un’idea straordinaria della moralità nella cosa pubblica e al tempo stesso seppe sempre difendere tutte le sue prerogative quale Presidente della Repubblica. In questo campo, almeno, la sua lezione non è andata del tutto perduta: alcuni suoi successori in tempi recenti, da Ciampi a Mattarella, l’hanno raccolta e reinterpretata, adeguandola ai tempi mutati. Non perdette mai l’occasione di tessere l’elogio del Parlamento come fulcro dello Stato liberale e democratico. A questo proposito scriveva: “La virtù del Parlamento non sta nel legiferare ma nel discutere…Solo discutendo faccia a faccia ci si può capire anche nelle differenze…” era convinto che “Solo discutendo personalmente, guardandosi negli occhi l’imprenditore e l’operaio potevano giungere a riconoscersi le proprie sovranità rispettive, senza invocare l’intervento dello Stato”.

Se ci pensiamo bene, sono passati 150 anni dalla sua nascita e 53 anni della sua morte, ma i suoi insegnamenti e le sue argomentazioni sono di una straordinaria attualità: siamo ancora lì, e non solo noi italiani, a cercare una cosiddetta “terza via” tra un capitalismo selvaggio e un comunismo inaccettabile. A studiare come bilanciare in modo virtuoso la libera iniziativa privata e un intervento dello Stato mirato a salvaguardare un reale e applicabile principio di uguaglianza tra i cittadini. Proprio qui risiede la grandezza e modernità del pensiero dello statista piemontese. Einaudi è stato il simbolo con De Gasperi di una Italia che si risollevava dalla guerra e guardava avanti con ottimismo.

Senza dubbio i più sinceri nel ricordo di questo grande liberista che credeva nel ruolo dello Stato purché non fuoriuscisse dagli argini, che odiava lo spreco del denaro pubblico e giudicava la vessazione fiscale a danno dei contribuenti un fallimento del governo, dovrebbero essere i veri Liberali nel senso più profondo del termine ma il dubbio che ci assale è… ma quanti sono davvero tali?

Riccardo Rossotto

Riccardo Rossotto

"Per chi non mi conoscesse, sono un "animale italiano", avvocato, ex giornalista, appassionato di storia e soprattutto curioso del mondo". Riccardo Rossotto è il presidente dell'Editrice L'Incontro srl

Discussione

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *