Nell’attribuire al governo di Viktor Orban poteri eccezionali e senza limiti temporali, motivati dall’emergenza coronavirus, il Parlamento ungherese ha stabilito che sulla pandemia saranno ammesse solo informazioni di fonti ufficiali e che chi verrà accusato dall’esecutivo di diffondere “notizie false”, comprese quelle critiche della gestione dell’allarme sanitario o di altre decisioni del potere, potrà essere condannato con pene da uno a cinque anni di prigione.
Una decisione che svela la venatura autoritaria che caratterizza le campagne contro le fake news e le espressioni considerate discriminatorie e quindi incitatrici all’odio e alla violenza. Una china pericolosa, seppur ammantata di “gentilezza” e di nobili fini, che mette a rischio una libertà fondamentale come quella di espressione.
Nelle settimane precedenti alla comparsa del coronavirus abbiamo avuto due esempi di questo desiderio censorio, entrambi provenienti da aree politiche democratiche (non nel senso del Pd).
Nel manifesto di fondazione del 21 novembre scorso, rivolgendosi ai “populisti”, le Sardine, sparite all’apparire del virus, scrivevano: “dobbiamo liberarci della vostra onnipresenza opprimente, a partire dalla rete. E lo stiamo già facendo. Perché grazie ai nostri padri e madri, nonni e nonne, avete il diritto di parola, ma non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare”.
E a metà gennaio il leader delle Sardine Mattia Santori chiedeva “un organo di polizia che garantisca che c’è un livello di sostenibilità democratica all’interno dei social network”.
Il concetto di “sostenibilità democratica” di un’opinione è talmente vago che darebbe mano libera alla repressione di qualsiasi voce scomoda al potere di turno. Se a questo si affianca il principio “innovativo” secondo cui non tutti hanno il diritto di essere ascoltati, c’è da rabbrividire.
Nello stesse settimane, alcuni esponenti di primo piano dell’ambientalismo hanno promosso una petizione sull’informazione e i cambiamenti climatici, in cui si denuncia che “assistiamo alla diffusione di fake-news secondo cui la comunità scientifica sarebbe divisa perché alcuni presunti scienziati sarebbero in grado di negare dati e teorie consolidate da decenni. Oppure assistiamo ad episodi di disinformazione in cui sono proposte all’ascolto di milioni di telespettatori affermazioni palesemente false (per esempio: il pianeta non si sta scaldando dal 2000; non c’è legame fra la CO2 e la temperatura del pianeta) che la comunità scientifica ha da tempo chiaramente confutato.
Il tutto in nome di una insensata “par condicio”, secondo cui dovrebbe essere data pari rilevanza a scienziati esperti della materia e a incompetenti che propagandano tesi negazioniste sul clima”.
Dopo aver detto che “non c’è in democrazia il diritto a dare spazio alle fake-news, si tratta solo di disinformazione”, la petizione chiede alla Federazione nazionale della stampa e all’Ordine dei giornalisti che non sia “più dato spazio a posizioni antiscientifiche, basate su opinioni di singoli e non supportate da ricerche validate dalla comunità scientifica”.
Contemporaneamente, da quello stesso mondo veniva chiesto al governo, come poi fatto anche dalla Camera dei deputati con una mozione, di dichiarare lo “stato di emergenza climatica”, con tutte le conseguenze istituzionali e sociali che ciò potrebbe comportare, come ben vediamo oggi con lo stato di emergenza sanitaria per il coronavirus, deliberato dal governo il 31 gennaio scorso.
Sia la richiesta di censurare le posizioni sul clima dissenzienti da quelle maggioritarie, sia la richiesta dello stato di emergenza climatica non hanno per ora avuto seguito, come non lo ha avuto la richiesta di censura sui social, con annesso intervento della polizia, avanzata dalle Sardine
È sperabile, però, che queste settimane di quarantena e di limitazione delle nostre libertà fondamentali, oltre al monito che ci arriva dall’Ungheria, servano a far riflettere su quanto queste libertà siano da difendere con determinazione, a cominciare dalla libertà di parola, sulla stampa come sui social, sia con qualsiasi altro strumento di comunicazione.
Un allerta sulle possibili conseguenze giuridiche di queste posizioni arriva da uno studio del Prof. Vincenzo Salvatore, dell’Università degli Studi dell’Insubria, pubblicato lo scorso novembre dal Servizio ricerca del Parlamento europeo e intitolato La libertà di espressione, una prospettiva di diritto comparato.
Nelle conclusioni dello studio si legge: “La mancanza di una adeguata disciplina delle modalità di utilizzazione dei social media e la difficile individuazione, al di là delle fattispecie che assumono rilevanza penale, della linea di demarcazione fra un’espressione che possa considerarsi appropriata ed una che debba essere bandita, espongono il diritto alla libertà di espressione al rischio di essere seriamente conculcato.
La diffusione poi dell’ideologia del politically correct rischia, mediante l’imposizione di convenzioni linguistiche, di dissimulare forme di censura che, ammantate dell’ipocrita finalità di non discriminare le diversità, finiscono per comprimere il diritto alla libertà di espressione, costringendo i consociati a conformarsi all’orientamento di un’egemonia politica o culturale.
É fondamentale allora che istituzioni democratiche che rappresentano l’interesse dei cittadini, e fra esse il Parlamento europeo, mantengano alta la guardia contro qualsiasi forma di attentato al diritto alla libertà di espressione, adottando o promuovendo l’adozione di tutte le misure necessarie per garantire non solo ai propri membri ma, più in generale, a tutti gli individui, di esprimere liberamente il proprio pensiero.
Il mantra resta e deve restare quanto affermato all’inizio del secolo scorso da Evelyn Beatrice Hall con lo pseudonimo di Stephen G. Tallentyre (ancorché erroneamente attribuito a Voltaire): “Disapprovo quello che dite ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo”.
Beniamino Bonardi