“Adesso siamo presi da problemi che riguardano la vita delle persone, poi vedremo”. Ha dichiarato in questi giorni il Ministro dei Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, grillino. Si riferiva al tema della nuova legge elettorale, e, alla domanda del giornalista “Se si farà in tempo a farla…”. La nostra sorpresa a leggere la risposta del Ministro, nasce da una situazione apparentemente paradossale.
Una situazione davvero paradossale
Diciotto mesi orsono (il 20-21 settembre 2020) siamo stati chiamati ad esprimere un nostro voto su un quesito referendario relativo alla riduzione del numero dei nostri parlamentari. Troppi ed inefficienti secondo il Movimento 5 Stelle che aveva cavalcato in prima linea questa battaglia contro la casta partitica.
Il sì alla riforma costituzionale ebbe la meglio e tutti i firmatari della proposta referendaria, come avevano promesso durante la campagna, garantirono l’emanazione “a breve” di una nuova legge elettorale. Una legge che tenesse conto della nuova conformazione del Parlamento, ridotto come numero in tutte e due le Camere (da 630 a 400 deputati, da 315 a 200 senatori). E che inoltre tenesse conto della necessità di rivedere i collegi elettorali e, aggiungiamo noi, i Regolamenti interni di Camera e Senato, fermi alla riforma del 1971.
Un silenzio davvero assordante
Proprio su queste colonne lanciammo un grido d’allarme già nell’ottobre del 2020 sollecitando il Parlamento a fare il suo mestiere e cioè a mettere le mani su una riforma della legge elettorale che tenesse conto della novità contenute nella proposta referendaria approvata. Ciclicamente qualche parlamentare rimette il tema della riforma elettorale sul tavolo del dibattito politico ma, dopo gli abituali scontri e teatrini dialettici tra i “proporzionalisti” e i sempre meno “maggioritari”. Tutti si impegnano a rimetterla nei cassetti … in attesa di tempi migliori.
Pandemia e guerra hanno definitivamente derubricato l’argomento a tal punto che il Ministro che ha la responsabilità istituzionale di curare i rapporti tra il Governo e il Parlamento si permette di rilasciare la dichiarazione che abbiamo citato in apertura. “Abbiamo priorità diverse …” sembra dire D’Incà. Come se dotarci finalmente di una legge elettorale adeguata possa rappresentare soltanto un auspicio di pochi intellettuali, un po’ snob. Di chi privilegia la teoria della politica rispetto alla concretezza dei bisogni delle persone.
Da non crederci!
Ad un anno di distanza dalla prossima tornata elettorale (sempre che il Governo non cada prima ma l’ipotesi appare davvero residuale) abbiamo una legge elettorale inidonea. Inidonea ad evitare ulteriori interventi censori della Corte Costituzionale. Inidonea a trovare un giusto e nuovo equilibrio normativo dopo gli esiti del referendum del settembre 2020. Senza contare, come ripetiamo da tempo, che bisognerebbe che il Parlamento mettesse mano alla riforma dei Regolamenti delle due Camere, ormai obsoleti come dimostra l’operatività del Parlamento negli ultimi anni.
Come ha sottolineato Andrea Manzella, il 10 aprile scorso in un intervento sul Corriere della Sera, la riforma dei Regolamenti del 1971 (51 anni fa!) era impostata sulla necessità di una riconciliazione tra il funzionamento dell’istituzione legislativa e la Costituzione repubblicana. “Con il suo manifesto propulsivo all’art. 3: rimuovere gli ostacoli alle libertà e all’eguaglianza” ha evidenziato Manzella, uno dei maggiori conoscitori della macchina burocratica del Parlamento.
“Oggi che la nostra costituzione si è intrecciata profondamente nell’ordinamento europeo (con il suo manifesto propulsivo all’art. 1 del Trattato: per una ‘unione sempre più stretta’). E’ questa la nuova prospettiva che dovrebbe ispirare l’assetto delle Camere”. Questo significherebbe “Una programmazione parlamentare conformata su obiettivi e tempi del programma pluriennale europeo. Quel PNRR, che vincolerà il Governo nelle prossime legislature. Significherà, poi, creare raccordi procedurali al sistema di democrazia rappresentativa dell’Unione con meccanismi di cooperazione con il Parlamento Europeo e gli altri parlamenti nazionali”.
E invece … non ci si pone il problema. Ci si limita a prendere atto che, allo stato, i partiti hanno posizioni diverse difficilmente riconciliabili con una riforma voluta da una grande maggioranza del Paese rappresentata in Parlamento.
Siamo alla solita storia già vista e conosciuta
Ognuno immagina una riforma elettorale mirata a tutelare il suo posizionamento numerico del momento, dettato dagli ultimi sondaggi pubblicati. Ogni partito si muove dall’appoggio al sistema proporzionale al maggioritario. O a sistemi misti a doppio turno, in stretta correlazione a come pensa di ottimizzare il suo successo. Esattamente al contrario di come bisognerebbe immaginare una nuova legge elettorale. Una legge basata non sugli interessi dei singoli partiti, ma sull’interesse generale e collettivo di un corretto bilanciamento tra il valore della rappresentanza e quello della stabilità dei governi.
Il paradosso attuale è che stiamo vivendo un quadro politico che presenta tre partiti che si alternano, sondaggio dopo sondaggio, intorno alla quota del 20%. Un quarto e un quinto partito che navigano intorno al 12-14% e poi tante sigle minori intorno alle soglie di possibili sbarramenti. Un quadro in cui è impossibile immaginare un sistema maggioritario con dei premi di maggioranza che violerebbero sicuramente, per essere efficaci, i paletti posti dalle ultime decisioni della Corte Costituzionale a tutela del principio di rappresentatività che deve essere salvaguardato a tutti i costi.
Che fare? Ci teniamo un Rosatellum azzoppato…?
Ragionare, per alcuni, sul ritorno al proporzionale puro con uno sbarramento al 4%. Un modello che trova l’opposizione di tutti quei partitini che vivacchiano intorno a quella quota e rischiano di scomparire. Nel caso di una mancata approvazione di una nuova legge elettorale rimarrebbe in vigore il cosiddetto “Rosatellum” (“azzoppato” dal risultato del referendum). Un sistema elettorale con il quale abbiamo votato nelle ultime elezioni e che rappresenta un sistema misto, proporzionale e maggioritario, Circa 1/3 dei seggi tra Camera e Senato viene eletto in scontri diretti nei collegi uninominali mentre i restanti 2/3 sono eletti con il sistema proporzionale. Questo modello, per la presenza dei collegi uninominali, consente e favorisce la formazione di coalizioni tra partiti diversi. I partiti devono ottenere almeno il 3% dei voti su base nazionale. Se si presentano alleati in una coalizione, quest’ultima deve raggiungere almeno il 10% dei voti su base nazionale.
Città, collegio, quartiere come cambiano i feudi politici
E’ passato, infine, quasi completamente sotto silenzio il lavoro svolto da una apposita commissione di esperti indipendenti che ha lavorato sulla modifica dei collegi elettorali. Modifica conseguente alla riduzione del numero dei parlamentari. Un tema delicatissimo perché va ad impattare sui perimetri dei feudi dei vari politici interessati alla competizione elettorale. Provate a pensare, ciascuno nella propria città di residenza, cosa potrebbe significare in termini di spostamento di voti, allargare un collegio o restringerlo, inserendo un quartiere o frazionando quello esistente. Insomma un lavoro difficile, “da sporcarsi le mani”. Un lavoro che è stato fatto e ha permesso a Mattarella di controfirmare il 23 dicembre 2021 il dl che approva la riforma dei vari, nuovi collegi appunto.
E’ ora del sistema con il voto per corrispondenza
Altro punto spinoso è quello di adottare il sistema con il voto per corrispondenza già utilizzato per gli italiani che vivono all’estero. L’astensionismo è il nemico da combattere e il voto per posta potrebbe aiutare a ridurlo. Il Libro Bianco stilato dalla Commissione di esperti per indagare le cause dell’astensionismo, prova a fornire delle soluzioni, almeno per i nove milioni di italiani con problemi di salute o con la residenza lontana dal luogo di studio e lavoro. Il voto negli uffici postali potrebbe favorire il loro ritorno all’esercizio del loro diritto di voto.
All’estero il voto per corrispondenza è ampiamente utilizzato. in Australia, terra di immigrati ed emigranti, fu introdotto addirittura nel 1877. Negli Stati Uniti è ammesso da oltre cento anni in 34 stati su 50. In Spagna si può votare per posta ma bisogna dimostrare di essere impossibilitati a recarsi al seggio. In Francia è addirittura ammessa la delega: chi non può votare di persona delega un terzo! Il primo paese al mondo ad avere adottato il voto elettronico tramite software digitali è stata l’Estonia.
Quella dei partiti è una latitanza ingiustificata
Ad un anno dalla scadenza elettorale, non sappiamo ancora il sistema con cui voteremo. Il Rosatellum rivisto nei collegi elettorali oppure un nuovo sistema? Né come funzionerà il Parlamento (con i vecchi regolamenti o con, finalmente, dei nuovi? Una situazione inaccettabile!
Riccardo Rossotto