L’assassinio brutale da parte della polizia americana dei tre afroamericani delle ultime settimane ha riportato, ancora una volta, l’ennesima, in prima pagina il tema razziale.
La vergognosa discriminazione, mai sopita, dei bianchi verso i neri.
Di coloro che hanno la pelle chiara nei confronti di quelli che l’hanno scura o comunque diversa.
Nel corso dei secoli si è consolidato il pregiudizio di una presunta superiorità genetica.
Della apparentemente giustificata superiorità intellettiva dei bianchi sui neri.
La differenza dal colore della pelle scalava fino alla conformazione celebrale.
Tutte teorie, più o meno fondate su richiami scientifici o pseudo tali, mirate ad attribuire e , soprattutto, giustificare una superiorità alla razza bianca tale da legittimare la schiavitù o comunque a considerare diversi e inferiori “gli altri”, quelli con una pelle di colore diverso.
Neri, rossi o gialli che fossero!
Ebbene, siamo di fronte ad una secolare fake news.
Nulla di più falso!
Nulla di più pretestuoso.
Ci aiuta ad entrare nei meandri di questa storica e spinosa questione, Nina Jablonski, autrice di un libro dal titolo “Colore vivo – il significato biologico e sociale del colore della pelle” , Bollati Boringhieri, 2020. Esperta sul tema delle ricerche sull’evoluzione del colore della pelle nell’uomo, l’antropologa americana, ha voluto scrivere un saggio non soltanto per addetti ai lavori ma destinato ad un pubblico più ampio, in grado finalmente di potersi documentare su un pregiudizio che contamina la coesione sociale tra esseri umani.
Una premessa personale mi sembra doverosa in merito: in questi decenni di girovagare per il mondo per motivi professionali o per pura curiosità turistica, ho sempre cercato di capire e di investigare le ragioni del cosiddetto razzismo, un fenomeno più accentuato in certi paesi rispetto ad altri.
Una delle spiegazioni più convincenti me l’ha fornita un diplomatico inglese, per tanti anni operativo nell’Ambasciata della Gran Bretagna in Sud Africa.
È facile – mi ha sempre ripetuto con un tono che rivelava cinismo ma anche partecipazione emotiva – non essere razzisti non avendo sostanzialmente a che fare, nella nostra quotidianità, con esseri umani con la pelle di colore diverso rispetto alla nostra.
Bisogna viverlo il contesto di una convivenza tra etnie diverse con storie, tradizioni e percorsi diversi, per capire veramente quale sia la reale drammaticità di una coesistenza apparentemente tra eguali che spesso sfocia ed è sfociata nei secoli, però, in violenze o ingiustificabili prevaricazioni dei bianchi verso “gli altri”.
Ho sempre colto in questa fotografia tipica di un uomo che aveva vissuto gran parte della sua vita all’estero, nelle ex colonie inglesi e quindi in prima linea con i temi dell’integrazione, o meglio, della non integrazione fra i colonialisti europei e le popolazioni locali, una lucida e non ipocrita lettura di un aspetto antropologico che ci riguarda tutti.
È troppo facile giudicare gli altri negativamente, autoassolvendoci, senza aver toccato con mano un certo tipo di fenomeno come quello della convivenza tra razze diverse in un certo contesto sociale e culturale.
E allora?
Dobbiamo forse impigrirci nel comprendere e giustificare certe forme di razzismo?
E allora…ho provato a stimolare i nostri, spesso banali, discorsi “da bar” o “da salotto” con gli amici, con i parenti, nelle nostre comunità, lanciando sul tavolo il tema provocatorio del sentirci o meno razzisti. Del nostro vissuto su un tema che troppo spesso incendia di violenze, non solo fisiche, intere città, intere nazioni, come sta accadendo in questi giorni in America.
La risposta che ho sempre ricevuto a tale provocatoria domanda, per le ragioni più varie, è sempre partita da un No urlato, quasi offeso, quasi irritato dall’aver solo ipotizzato che il mio interlocutore potesse essere un razzista.
Poi nel corso del confronto, la permalosità iniziale ha lasciato spesso il posto a dei dubbi, a dei fastidi, a volte, a delle vere e proprie dichiarazioni di razzismo “a prescindere”.
Dunque, il tema è probabilmente un “cantiere aperto” in ciascuno di noi, fortemente condizionato nei verdetti finali dal dove viviamo e dal tipo di contesto in cui abbiamo, sia dal punto sociale o economico, vissuto la nostra esistenza fino a quel momento.
Il fenomeno dell’immigrazione ha ovviamente, nell’ultimo decennio, accelerato e reso ancora più cruento e pericoloso questo tema proprio perché ha incominciato a toccare nella quotidianità, con numeri rilevanti, popolazioni, come quella italiana, che non avevano mai avuto in forma massiva la necessità di confrontarsi veramente con “gli altri”, con quelli dalla carnagione diversa, nella loro vita di tutti i giorni.
In questo quadro esperienziale complesso e contraddittorio che ritenevo corretto anticiparvi, ho letto, con grande interesse ma anche con grande gratitudine, il libro di Nina Jablonski, che ripercorre le principali tappe dell’evoluzione umana mettendo in luce come le “lunghe” migrazioni (sia nel tempo, sia nello spazio) abbiano modellato via via la nostra carnagione in dipendenza dei climi diversi in cui siamo vissuti.
L’autorevole antropologa americana smonta razionalmente e svuota quindi di contenuto, una delle tesi che negli anni ha caratterizzato una parte del pensiero, anche filosofico, dei paesi occidentali: il razzismo nascerebbe da una reale, provata differenza biologica fra le razze diverse.
L’autrice di “Colore vivo” smentisce tale tesi e ci accompagna, con profondità e conoscenza scientifica acquisita nel corso di lunghe ricerche, in una storia avvincente sul come l’essere umano, uscito dallo stato animale, si sia poi sviluppato ed espanso sull’intero pianeta terrestre.
Nella prima parte del libro, la Jablonski affronta il tema dal punto di vista biologico, spiegandoci come i diversi colori della pelle umana si siano all’inizio originati e poi evoluti negli ultimi 60.000 anni.
I primi uomini erano tutti di pelle nera perché l’evoluzione della specie umana, si legge nel libro, ha avuto origine nell’Africa equatoriale, circa 6 milioni di anni fa.
Che cos’è la pelle?
Il filtro del nostro corpo con l’ambiente fisico, chimico e biologico esterno. La pigmentazione scura era proprio connessa alla necessità di proteggersi dai raggi UV ovviamente assai più forti e letali nelle zone equatoriali e tropicali.
Quando, come dicevamo prima, circa 60.000 anni fa, i primi gruppi di persone incominciarono a muoversi dall’Africa nord orientale prendendo la direzione est verso l’Asia, diedero origine alle prime mutazioni dell’epidermide.
I primi gruppi di emigranti alla ricerca di località adatte ad una qualità della vita più sopportabile, si accorsero che il colore della loro pelle mutava in funzione del clima.
Muovendosi lentamente verso climi meno torridi, i nostri avi si trovarono di fronte però anche ad un problema nuovo: è vero che i raggi UV potevano essere causa del melanoma, ma avevano anche la grande qualità di sintetizzare la vitamina D fondamentale per fissare il calcio nelle nostre ossa.
Per questo motivo l’allontanamento dall’Africa provocò un immediato diffondersi del rachitismo che fu compensato in qualche modo con cibi adatti o con i primi farmaci, più o meno naturali, derivanti dalla valorizzazione appunto della vitamina D.
Le condizioni meteorologiche nuove e più miti, e la tipologia di alimentazione conseguente, hanno fatto sì che gli esseri umani avevano mutato l’originaria pigmentazione scura in diversi colori in stretta correlazione ai territori dove la loro migrazione terminava.
Accertato tale aspetto biologico, l’autrice, passando alla seconda parte del suo saggio, ci segnala un dato importante su cui riflettere: “Non siamo geneticamente programmati per avere dei pregiudizi. Nel tempo, però, abbiamo sviluppato credenze e pregiudizi legati al colore della pelle che si sono trasmessi nei decenni e nei secoli e attraverso tutto il pianeta”.
Il colore della pelle è diventato dunque il punto di incontro tra la biologia e l’esperienza quotidiana: la differenza razziale, nel dibattito degli ultimi due secoli tra scienziati e filosofi, venne codificata in base al colore della pelle. Colore che non ha nulla a che fare con una presunta specificità naturale. Oggi è diventato un indicatore invece delle differenze più o meno presenti tra le diverse razze e questa cultura è così profondamente radicata in una gran parte del genere umano che è difficile separare il colore della pelle dai pregiudizi razziali.
“Il concetto di razza attribuito all’umanità, fin dagli inizi si è fondato sul colore della carnagione dei non-europei, come elemento discriminatorio. Il colore della pelle è una realtà biologica; la razza no”.
La Jablonski ci ricorda anche nel suo volume come le discriminazioni, sulla base del colore della pelle, siano state perpetrate anche sui Pellerossa americani o sui cinesi e giapponesi divenuti gialli proprio a seguito di processi contaminati dal clima e dall’alimentazione.
Il benchmark però dei pregiudizi razziali rimane quello nei confronti dei negri e cioè delle persone provenienti dall’Africa. Di quelle persone che hanno terribilmente sofferto il razzismo sulla loro pelle e a causa della loro pelle.
Un pregiudizio in senso tecnico e lessicale costruito fin dall’epoca delle prime esplorazioni che hanno poi sdoganato e legittimato la tratta degli schiavi.
Mi ha colpito, in particolare, nella fluente e piacevole narrazione di Nina Jablonski che mi ha permesso di aprire gli occhi su molte zone grigie che stanno a monte dei nostri pregiudizi razziali, anche se contestati e difficilmente ammessi, una riflessione sull’importanza, anche negativa, del colore della pelle: “Il colore è un fatto naturale, dovuto alla rifrazione della luce, ma la sua interpretazione è assolutamente culturale. Sarebbe tutto più facile se continuassimo a pensare che i colori che vediamo, siano i colori del mondo, invece no: sono i colori della mente e come ogni dato culturale, sono il frutto di una costruzione del tutto umana”.
Pur tenendo a mente la fotografia del diplomatico inglese (bisogna viverli i problemi e non giudicarli da lontano!), mi sembra che, alla luce del contenuto di questo libro, dovremmo davvero farci, ciascuno davanti al proprio specchio, un bell’esame di coscienza riguardo al tema del colore della pelle e soprattutto del doppio profilo con cui va valutato: quello biologico e quello culturale.
Sono convinto che questa autoanalisi ci aiuterebbe a vivere meglio, a considerare “gli altri” non un nemico ma un fratello, insomma ci spingerebbe non a costruire muri ma a progettare ponti perché il valore dell’integrazione e dell’inclusione, anche dal punto di vista puramente egoistico, è l’investimento che, a mio avviso, rende di più in termini di qualità della vita e di sistemazione delle nostre coscienze.
Riccardo Rossotto
Giulia Chiariglione, antropologa, alla quale ho fatto leggere preliminarmente questo articolo, mi ha scritto:
QUANDO SI MUTILAVANO I CORPI
La discriminazione sistematica del corpo nero in America ha radici lontane. Tra Settecento e Ottocento, credenze sulle differenze fisiche del corpo nero venivano sfruttate da legislatori, scienziati e proprietari terrieri per giustificare la schiavitù.
Il “1619 Project” del New York Times ha raccontato di antenati di Mengele come Thomas Hamilton che “dimostravano” queste differenze sottoponendo gli schiavi a esperimenti dolorosissimi. Quanto fosse profonda la pelle nera, che fosse più spessa e meno sensibile di quella bianca. Crani più piccoli e organi sessuali più grandi addotti a prova di scarsa intelligenza e promiscuità. E poi la più elevata tolleranza al calore, l’immunità verso certe malattie, la convinzione che i corpi neri fossero immuni al dolore ma avessero polmoni deboli che andavano rinforzati attraverso il lavoro duro. Amputazioni e mutilazioni genitali venivano effettuate quotidianamente, spesso senza anestesia.
Sono passati più di duecento anni, ma quelle credenze, e le loro conseguenze sono ancora molto vive. Durante l’emergenza Coronavirus, le diseguaglianze in campo sanitario e socio-economico hanno portato i neri d’America a morire di Covid a un tasso tre volte più alto dei bianchi. In Louisiana, dove gli afroamericani costituiscono il 33% della popolazione, sono stati il 70% dei morti. Di più. Uno studio pubblicato da ProPublica sottolinea il rapporto tra le amputazioni da diabete (l’intervento più prevedibile negli Usa), il razzismo e la schiavitù. I pazienti neri, infatti, perdono gli arti a un tasso più di tre volte superiore a quello di ogni altro gruppo. E sovrapponendo il grafico sulla popolazione schiava nel 1860 a quello sulle amputazioni nel 2008-09, le aree di maggiore incidenza risultano le stesse.
Nella foto (Sam Wagner/Shutterstock), manifestazione a Minneapolis lo scorso maggio.