Nei mesi successivi alla fine della Grande Guerra, il Partito Socialista riprese la sua attività propagandistica attraverso le Camere del Lavoro e le Leghe contadine, molte delle quali furono costituite ex novo. In particolare, in Umbria, il 2 febbraio 1919 si tenne il Congresso regionale del Partito socialista, che stabilì le modalità della ripresa dell’attività politica e sindacale.
In merito alla situazione degli agricoltori, nella primavera 1919 si preparò in Umbria la vertenza per il rinnovo del patto colonico tra i proprietari terrieri ed i mezzadri. La Federazione lavoratori della Terra (Federterra) elaborò una serie di proposte, pubblicate il 7 giugno sul giornale “La rivendicazione”, le più importanti delle quali erano: l’abolizione degli obblighi e delle regalie verso il proprietario; l’obbligo per il proprietario dell’acquisto degli attrezzi rurali e la sua partecipazione al 50% delle spese per la semina e la trebbiatura; la divisione a metà dei beni prodotti; la chiusura annuale dei conti colonici; il riconoscimento della Federterra come legale rappresentante di tutti i contadini. In questo modo si modificava profondamente il contratto di mezzadria che da contratto di società tra proprietario e mezzadro diventava un contratto di lavoro nel quale il mezzadro era un lavoratore con compartecipazione agli utili dell’azienda agricola.
Il Prefetto di Perugia, Spirito, considerò “esorbitanti” le proposte della Federterra.
Essendo falliti i tentativi di comporre bonariamente la vertenza, il 30 giugno 1919 la Sezione della Federterra dell’Alta Valle del Tevere aprì ufficialmente l’azione di lotta.
Comunque, nelle prime settimane il lavoro agricolo proseguì normalmente. Invece, dure furono le manifestazioni contro il caro viveri iniziate a giugno, che portarono allo sciopero generale del 5 luglio. In particolare, a Città di Castello ci furono manifestazioni anche violente nei confronti dei commercianti che furono costretti a ridurre del 50% i prezzi dei beni fondamentali.
La lotta contro il caro viveri inasprì la vertenza per il rinnovo del patto colonico. Comunque il 23 luglio si raggiunse un accordo di massima, firmato il 28 luglio nel comprensorio dell’Alta Valle del Tevere. I punti più importanti erano: il diritto del colono ad una abitazione igienica; l’istituzione di una Commissione arbitrale; la chiusura annuale dei conti; l’attribuzione al proprietario dell’imposta fondiaria e della tassa sugli animali da lavoro e del 50% della spesa per gli attrezzi meccanici. Inoltre, per i terreni ubicati in montagna o di scarso reddito, la Commissione arbitrale poteva stabilire una ripartizione della produzione dei cereali diversa dal 50%.
Invece il patto colonico firmato il 25 luglio per il comprensorio del Trasimeno era migliore per i coloni. Prevedeva infatti; l’abolizione di tutti gli obblighi colonici; la divisione a metà con il proprietario della spesa per le sementi; il diritto di prelazione per il colono in caso di affitto del podere; l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro sia per il colono che per i familiari.
Nell’agosto 1919, i proprietari terrieri costituirono a Perugia l’Associazione tra proprietari e conduttori di fondi rustici dell’Umbria, con lo scopo di opporsi in modo unitario ad ulteriori richieste dei coloni. In risposta, il 9 settembre 1919, fu costituita presso la Camera del Lavoro di Perugia la Federazione provinciale dei lavoratori della terra, che riuniva le numerose leghe contadine preesistenti e rappresentava circa 15.000 contadini.
Intanto, anche il Partito Popolare aveva costituito leghe di contadini di fede cattolica, forti soprattutto nella zona di Foligno e di Gubbio, che ben presto si scontrarono con le leghe socialiste in merito alle modalità di conduzione della lotta sindacale. In seguito si costituì il Sindacato dei contadini umbri.
Nell’autunno 1919 molti proprietari terrieri, che non volevano attuare l’accordo di massima per il patto colonico firmato a luglio, inviarono le disdette del contratto ai mezzadri che si erano maggiormente attivati nella lotta sindacale. Per protesta, l’11 novembre (giorno di S. Martino, in cui iniziava l’anno agrario) i coloni di varie zone dell’Umbria attuarono lo “sciopero del bestiame”, lasciando senza cura gli animali. Altri scioperi furono attuati tra la fine del 1919 e l’inizio del 1920 in tutta la Regione.
In particolare, nel comprensorio di Città di castello solo 30 proprietari su 130 rispettarono l’accordo. Pertanto, il 6 giugno 1920 la Federazione provinciale dei lavoratori della terra decise di iniziare la lotta per la firma del nuovo patto colonico. Le proposte, rese pubbliche il 15 giugno, erano simili a quelle recepite nell’accordo di massima del luglio 1919. I proprietari, in una assemblea tenutasi alla fine di giugno, decisero di respingerle. La situazione si fece molto difficile. Il nuovo Prefetto di Perugia, Olivieri, invitò l’associazione dei proprietari a trattare con la Federazione provinciale dei lavoratori della terra. Nel contempo, temendo per la turbativa dell’ordine pubblico chiese l’invio di Carabinieri, che arrivarono alla fine di giugno.
All’inizio di luglio furono arrestati una ventina di coloni per “attentato alla libertà del lavoro”.
Il 4 luglio 1920, l’associazione dei proprietari decise di non partecipare alle trattative conclusive per il nuovo patto colonico. Questo rifiuto esasperò i contadini che decisero di non attuare la trebbiatura del grano. Lo sciopero si estese a tutta l’Umbria e coinvolse circa 100.000 persone, comprendendo anche i familiari dei contadini. Molto attive furono anche le donne.
A sostegno dei proprietari, il 10 luglio la Confederazione generale dell’agricoltura, con sede a Roma, chiese al Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, presso il Ministero degli Interni, l’invio di agenti di Polizia e di Carabinieri nelle zone dove maggiore era la tensione tra proprietari e coloni.
Inoltre, l’associazione umbra dei proprietari chiese al Presidente del Consiglio dei Ministri, Giovanni Giolitti, l’invio di reparti dell’esercito per reprimere le manifestazioni dei contadini. Il Prefetto invece chiese l’invio di 500 Carabinieri.
Il 12 luglio si svolse presso la Commissione arbitrale il primo incontro tra i rappresentanti dei proprietari e dei coloni, ma non si ottenne alcun risultato per l’atteggiamento intransigente dei proprietari, che fu deplorato dalla stessa Commissione arbitrale. Inoltre, la Federazione provinciale dei lavoratori della terra rifiutò di trattare insieme con il cattolico Sindacato dei contadini umbri e con le leghe contadine dei combattenti, che pertanto si ritirarono dalle trattative.
Nel pomeriggio del 15 luglio avvenne un grave fatto di sangue che esasperò la tensione. Mentre centinaia di contadini arrivavano in corteo a Panicale, per assistere al comizio dell’onorevole socialista Francesco Ciccotti, all’ingesso del paese furono fermati da Carabinieri, i quali spararono sui manifestanti dato che alcuni non avevano voluto lasciare i bastoni che tenevano in mano. Cinque manifestanti morirono, compresa una donna incinta. Un sesto morì il giorno seguente per le gravi ferite riportate. I feriti furono 14. Il giorno seguente i Deputati socialisti attaccarono alla Camera il Ministro degli Interni.
La Camera del Lavoro di Perugia proclamò lo sciopero generale nella Regione. Numerose fabbriche e molti negozi rimasero chiusi per “lutto proletario”. Per mantenere l’ordine pubblico, fu inviato a Perugia un battaglione di fanteria.
Intanto, in seguito allo sciopero dei contadini era stata bloccata la mietitura. Pertanto, alcuni Comuni, anche quello di Città di Castello, erano rimasti privi di frumento. Allora, il cattolico Sindacato dei contadini umbri autorizzò i propri aderenti a fare la mietitura.
Poiché i proprietari rimanevano fermamente sulle loro posizioni intransigenti, la Federazione provinciale dei lavoratori della terra invitò i coloni ad attuare lo sciopero del bestiame, lasciando senza cura gli animali. Nel comprensorio di Città di Castello il Commissario prefettizio Molinari, convocò i rappresentanti delle parti ottenendo la non attuazione dello sciopero.
Il 18 luglio, dopo due giorni di trattative presso la Commissione arbitrale, i proprietari della zona di Spoleto, che da tempo erano favorevoli ad una soluzione della vertenza, firmarono un accordo che fece cessare lo sciopero del bestiame. Questo accordo divenne l’obiettivo di tutti i coloni umbri, che continuarono lo sciopero per ottenerlo.
Il 24 luglio, i coloni della zona di Città di Castello portarono nel foro boario della città più di 2.000 animali. A questo punto, i proprietari cedettero e firmarono nel pomeriggio, nell’ufficio del Commissario prefettizio, un accordo uguale a quello di Spoleto. Pertanto, tutto il bestiame fu riportato nelle stalle.
Il giorno seguente, altri proprietari fecero lo stesso, cosicché il 26 e 27 luglio, alla Commissione arbitrale provinciale, fu firmato il nuovo patto colonico non solo dalla Federazione provinciale dei lavoratori della terra ma anche dal cattolico Sindacato contadini umbri. In seguito anche le leghe dei combattenti espressero il loro compiacimento per la fine della vertenza, durata quasi un mese.
Il Commissario prefettizio di Città di Castello, Olivieri, accusato dai proprietari di parzialità a favore dei contadini, fu rimosso dall’incarico.
I punti più qualificanti del patto colonico erano i seguenti: i proprietari mantenevano la direzione dell’azienda a loro totali spese (mentre invece volevano la compartecipazione alle spese dei coloni); i proprietari dovevano dare al colono una casa igienica, assumendosi tutte le spese per la sua manutenzione, come anche per quella del podere; tutti gli obblighi colonici erano aboliti; i coloni avevano il diritto di far studiare i figli, abolendo così l’obbligo di impiegare “tutte le braccia” (cioè tutti i familiari) nella lavorazione del podere; la produzione era divisa al 50% , ma per i terreni di montagna o a basso livello produttivo, al colono andavano due parti dei beni prodotti ed una sola parte al proprietario; in caso di scarso raccolto, causato da avversità atmosferiche, il proprietario doveva dare al colono i mezzi necessari di sussistenza, senza compenso o obbligo di restituzione; i conti colonici dovevano essere chiusi entro il mese di gennaio; il mezzadro aveva il rimborso delle spese per la manodopera avventizia sostenute durante la Grande Guerra; il mezzadro aveva il diritto di prelazione in caso di affitto o di vendita anche parziale del fondo.
Il patto entrò in vigore per l’anno agrario 1919-1920 (quello in corso), mentre i proprietari volevano farlo iniziare dal 1922.
Fu istituita la Commissione mandamentale di conciliazione, formata da due proprietari, da due coloni e dal direttore della locale Cattedra ambulante di agricoltura. Però la Federterra non fu riconosciuta quale rappresentante dei contadini.
Per la soluzione positiva della vertenza, alle elezioni amministrative dell’ottobre 1920 il Partito Socialista ottenne un notevole successo in molti Comuni.
Nel febbraio 1922 l’associazione dei proprietari rifiutò di continuare a rispettare il patto colonico.
La maggior parte delle conquiste più importanti ottenute dai contadini furono annullate durante il periodo fascista.
Giorgio Giannini
Bibliografia: Francesco Bogliari, Il biennio rosso nelle campagne umbre (1919-1920), in www. Italia-resistenza.it