Durante la Grande Guerra, in tutti i Paesi belligeranti, mentre milioni di soldati combattevano nelle trincee, milioni di donne occupavano i posti di lavoro lasciati dagli uomini chiamati alle armi ed avviati al fronte.
Le donne furono occupate in quasi tutti i lavori, prima svolti tradizionalmente dagli uomini: agricoltura, industria (anche nella produzione bellica), impieghi pubblici (poste, tramvie…) e privati (banche, assicurazioni…). La Grande Guerra, nonostante le immense tragedie che comportò, fu un’occasione di emancipazione femminile. Infatti, la donna, da “angelo del focolare domestico”, acquisì un ruolo importante nell’economia e nella produzione industriale. In particolare, in Italia, alla fine del conflitto, nel novembre 1918, il 75% della produzione industriale era opera delle donne, molte delle quali erano anche impegnate nei tradizionali lavori domestici, per accudire i figli ed i genitori anziani.
Le lavoratrici italiane, diversamente da quelle francesi, inglesi e tedesche, non solo erano pagate meno degli uomini che svolgevano le stesse mansioni, ma erano anche “guardate con sospetto”, e con un pregiudizio morale, non solo dai loro colleghi di lavoro, ma anche dall’opinione pubblica perché lavoravano in settori produttivi riservati fino ad allora agli uomini.
Molte femministe, che prima dello scoppio della guerra si erano opposte al conflitto, in seguito si impegnarono in attività di propaganda bellica ed in iniziative patriottiche, perché compresero che il conflitto era una opportunità che favoriva l’emancipazione femminile. In particolare, chiesero di rendere obbligatoria la mobilitazione delle donne da 14 a 48 anni, nel cosiddetto “fronte interno”, ma il Governo non accettò la proposta.
Molte donne parteciparono attivamente a comitati patriottici, organizzando anche balli con “baci patriottici”, dal costo di ben 100 lire, per raccogliere fondi. Un comitato patriottico di donne bolognesi inventò una maschera antigas, che poi fu perfezionata, prodotta in serie ed inviata ai militari al fronte. Inoltre, donne patriottiche regalavano una piuma bianca, simbolo di codardia, agli uomini giovani che passeggiavano da soli, per invitarli ad arruolarsi. Infine, le “madrine di guerra” scrivevano ai soldati al fronte, per incoraggiarli a combattere per la vittoria della Patria.
Nell’agricoltura furono occupate circa 6 milioni di contadine (molte delle quali vi lavoravano saltuariamente prima della guerra), che riuscirono, negli anni del conflitto a non far scendere la produzione agricola sotto il 90% di quella prebellica.
Nell’industria, le lavoratrici impiegate nell’industria tessile aumentarono del 60% in un anno, nel pieno dello sforzo bellico (da 651.000 dell’aprile 1916 a 1.240.000 nel maggio 1917). Inoltre, nello stesso periodo, le lavoratrici nell’industria bellica quasi decuplicarono, passando da 23.000 a circa 200.000. Peraltro, molte di queste ultime operaie morirono a causa delle sostanze chimiche tossiche, utilizzate nella produzione delle munizioni (al riguardo, in Inghilterra erano chiamate “canarini” per il loro aspetto giallastro).
Le donne impiegate negli uffici e nei servizi pubblici (le cosiddette “camicette bianche”) furono circa la metà dei lavoratori, ed erano utilizzate in molte mansioni e non solo nei lavori più umili, come quello dello spazzino. Infatti, c’erano donne – postino, donne – tramviere e anche donne – capoufficio, mal sopportate dagli impiegati maschi, che provavano forti difficoltà ad accettare le direttive di una donna “capo”.
Le lavoratrici erano quindi presenti in tutti i settori economici e produttivi. In questo modo, la Grande Guerra stravolse una realtà sociale, immutata da sempre, tanto che un quotidiano dell’epoca scrisse che si stava vivendo in un “mondo alla rovescia”, che si era capovolto per i profondi mutamenti sociali. Molte lavoratrici assunsero abitudini considerate propriamente maschili (fumavano, frequentavano i bar, vivevano da sole…) attirandosi i pregiudizi della società. Nel periodo di massimo sforzo bellico le donne italiane parteciparono attivamente anche a centinaia di manifestazioni di protesta contro la guerra e per chiederne la fine. Molte cercarono addirittura di impedire, alle stazioni ferroviarie, la partenza dei loro mariti e fratelli per il fronte. Si impegnarono anche contro il carovita, scioperando per chiedere sia l’aumento dei salari, che a partire dal 1916 e soprattutto nel 1917, furono falcidiati dal notevole incremento del costo della vita, sia l’aumento del sussidio giornaliero, dato dal Governo, tramite i Comuni, alle famiglie più bisognose.
Infatti, durante il conflitto, i prezzi aumentarono di continuo: la farina passò da 32 a 45 centesimi al kg; il prezzo della carne quadruplicò e quello dei fagioli secchi (che erano la “carne dei poveri”) quintuplicò. La lana aumentò da 10 a 40 lire il kg.
Le crocerossine: gli angeli delle trincee
Nel 1908 fu istituito, per iniziativa delle regina Margherita, moglie del re Umberto I, ucciso nel 1900 a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci, il Corpo delle Infermiere Volontarie della Croce Rossa, che proseguiva le attività svolte dall’inizio dell’Ottocento dalle Dame della Croce Rossa. Nell’aprile 1915, il mese precedente l’entrata dell’Italia nella Grande Guerra, fu nominata ispettrice nazionale del Corpo la duchessa Elena d’Aosta, moglie di Emanuele Filiberto, duca d’Aosta, il leggendario Comandante della III Armata, stanziata sul fronte del basso Isonzo, la quale aveva prestato servizio come ispettrice delle Infermiere Volontarie nella guerra di Libia del 1911-1912.
Durante la Grande Guerra sono state arruolate migliaia di infermiere volontarie, chiamate “crocerossine”. Nel 1915 erano 4.000, nel 1916, 6.000 e 10.000 alla fine del conflitto. Secondo i dati statistici ufficiali, ne sono morte 44 (10 colpite a morte al fronte, e le altre per malattia, contratta in servizio) e 3 sono state prese prigioniere.
Una ricerca, ancora in corso, di una appassionata studiosa della Grande Guerra, Silvia Musi, ha scoperto oltre cento crocerossine decedute. La crocerossina più famosa è Margherita Kaiser Parodi Orlando, di appena 21 anni (l’età della maggior parte dei soldati al fronte), che aveva prestato servizio presso la III Armata, comandata dal Duca d’Aosta, che è stata decorata il 19 maggio 1917 con la Medaglia di Bronzo al Valore Militare “per essere rimasta al suo posto mentre il nemico bombardava la zona dove era situato l’ospedale (mobile n. 2 di Pieris-Friuli), cui era addetta”. Morì della terribile malattia “spagnola” il 1 dicembre 1918 a Trieste, mentre lavorava nell’ospedale cittadino ed è sepolta nel Sacrario di Redipuglia, unica donna tra 100.000 soldati, 60.000 dei quali ignoti.
Le crocerossine in genere appartenevano a classi sociali borghesi e di elevata cultura. Quelle coniugate, dovevano chiedere l’autorizzazione del marito e le nubili quella del padre. Non potevano curare gli ufficiali feriti che erano accuditi dalle infermiere professionali della Croce Rossa o da infermiere religiose(suore). Dovevano quindi occuparsi dei semplici soldati e per farsi rispettare avevano tutte il grado di ufficiale. Pertanto, i soldati dovevano ubbidire ad esse e non mancare loro mai di rispetto, altrimenti avrebbero subito severe sanzioni militari. I soldati le rispettavano, indipendentemente dal loro grado di ufficiale, perché vedevano in esse la moglie, la madre, la sorella. Inoltre, si affezionavano a esse, come si legge nelle lettere di ringraziamento, scritte dai soldati, dopo la guarigione ed il ritorno al fronte, alle crocerossine che li avevano accuditi amorevolmente negli ospedali. Eranoconsiderate dai soldati “angeli delle trincee”.
Con la diffusione delle crocerossine si superò il secolare preconcetto che “il medico si occupa delle ferite e l’infermiera dei feriti”. Pertanto, nel dopoguerra, anche le donne poterono accedere alla professione medica. Nelle cartoline illustrate dell’epoca, diffuse in tutti i Paesi belligeranti, le crocerossine erano raffigurate ben vestite e curate, mentre assistevano amorevolmente i feriti appoggiati ad alberi o sdraiati nel letto di un ospedale. Da queste immagini quindi non si percepiva l’orrore della guerra; anzi esse trasmettevano una serenità quasi materna ed infondevano tranquillità.
In verità, le crocerossine furono impegnate nell’assistenza dei feriti non solo negli ospedali delle città lontane dal fronte e nei treni ospedali, ma anche nelle immediate retrovie della prima linea, negli ospedali da campo, rischiando così la morte, ma hanno sempre dimostrato un notevole coraggio eduna forte abnegazione al sacrificio. Al riguardo, dopo la disfatta di Caporetto dell’ottobre-novembre 1917, numerose crocerossinerimasero accanto ai feriti e quindi furono catturate dagli austriaci e internate nel campo di prigionia di Katzenau, da cui furono liberate nel maggio 1918 in seguito alle pressioni sul Governo asburgico fatte dalla duchessa Elena d’Aosta.
Le prostitute
La prostituzione e l’alcool, peraltro distribuito abbondantemente prima di ogni attacco contro le trincee nemiche, erano le sole cose permesse al fronte.
I bordelli militari furono istituiti fin dai mesi del conflitto ed erano molto diffusi nelle immediate retrovie del fronte e soprattutto nelle cittadine in cui i militari erano inviati a passare un breve periodo di licenza dalla “prima linea”. In particolare, a Vicenza c’erano ben 25 case di tolleranza e “casini militari”. In particolare, un bordello di Palmanova prometteva di soddisfare le richieste di 900 militari al giorno, mentre un altro di Asiago si vantava di avere, a rotazione, circa 600 prostitute.
La presenza dei bordelli militari fu osteggiata dalla Chiesa cattolica, in particolare dal vescovo di Padova, ma i vertici militari (in primis il comandante supremo, il generale Luigi Cadorna) li ritenevano indispensabili per sollevare il morale dei soldati e per distrarli dalle atrocità della “prima linea”, dove rischiavano ogni giorno la morte nelle trincee. Peraltro, i sodati avvertivano un forte senso della caducità della vita, che allentava i pregiudizi acquisiti con l’educazione ricevuta, che in genere era profondamente impregnata degli insegnamenti della religione cattolica.
L’11 giugno 1915 il generale Luigi Cadorna sollecitò la creazione di “appositi locali accessibili soltanto ai militari”. Nacquero così i “casini di guerra”, la cui attività era regolamentata dall’Esercito, che stabilì rigide norme igieniche, sia per i locali nei quali si esercitava la prostituzione, sia per gli utenti, che dovevano seguire certi comportamenti, pubblicizzati attraverso manifesti e volantini, sia prima che dopo il rapporto sessuale (ad esempio si consigliava di non orinare prima del rapporto, ma subito dopo, e di non baciare le prostitute). Ciononostante, le malattie veneree (dette “malattie celtiche”) erano molto diffuse, anche perché molti soldati erano analfabeti e quindi non sapevano leggere. Poiché le malattie veneree richiedevano una lunga convalescenza, lontano dal fronte, alcuni pensarono addirittura che la loro diffusione era favorita dal nemico (come strategia) per “indebolire” il nostro Esercito.
I soldati erano sottoposti all’esame Wasserman per la diagnosi della sifilide, il “mal francese” (detto volgarmente “mal francioso”), che provocava spesso la morte. Infatti, i soldati morti di sifilide furono 1.802 nel 1915, 1.810 nel 1916, 1802 nel 1917. Non ci sono invece dati statistici per le prostitute morte per le malattie veneree.
Queste dovevano avere una carta di identità specifica, con il nome, lo pseudonimo e la foto. In genere erano contadine o serve domestiche. Le prostitute erano soggette a visite mediche periodiche, anche quelle che esercitavano il “meretricio randagio”, cioè per strada. In questo caso, si trattava spesso di donne, mogli, figlie e sorelle di soldati al fronte, che non sapevano come tirare avanti, non sapevano come sopravvivere, dato che non avevano più il sostegno economico del loro congiunto, che era l’unico che lavorava. Queste donne, spesso riunite in gruppi familiari (madri e figlie) aspettavano i clienti per strada. Questa situazione era talmente diffusa, che molti militari al frontedubitavano della fedeltà della propria moglie, tanto da chiederle, nelle lettere, quale lavoro facesse per mantenere i figli e la famiglia allargata (che comprendeva anche i genitori).
In verità, i familiari dei militari al fronte, riconosciuti bisognosi da apposite Commissioni comunali, ricevevano un sussidio giornaliero di 0,60 lire per la moglie e di 0,30 lire per ogni figlio minore di 12 anni, ma molto spesso il sussidio non era sufficiente per vivere. Per questo motivo, il Governo, in deroga alle leggi sulla protezione del lavoro minorile, concesse ai figli dei militari con più di 12 anni di poter andare a lavorare, per contribuire alla necessità economiche della famiglia, anche senza avere conseguito il prescritto livello minimo di istruzione.
Le prostitute ricevevano in media 80 uomini al giorno, con punte anche di 120 prestazioni giornaliere. Davanti ai bordelli militari c’erano sempre lunghe file di soldati, in breve licenza dal fronte, in attesa del loro turno.
La durata massima della prestazione sessuale era di 10 minuti. Il rapporto era quindi frettoloso ed i soldati dovevano togliere solo le giberne, per non danneggiare la pelle delle ragazze.
La prestazione costava 1 lira e 50 centesimi. Pertanto, l’incasso medio della prostituta, o meglio della tenutaria del bordello militare, era di 120 lire al giorno (per 80 prestazioni). La prostituzione era quindi un grande business per chi lo gestiva, considerato che in Italia, nel 1915, il reddito medio annuo pro capite era di 718 lire.
La prostituzione era invece un latrocinio per il povero soldato che, per rischiare la vita al fronte, riceveva nel 1915 solo 50 centesimi al giorno: il soldo di 10 centesimi, più l’indennità di guerra di 40 centesimi (che aumentò nel corso della Guerra fino ad arrivare a 90 centesimi). Il militare quindi, per 10 minuti di piacere spendeva l’equivalente di tre giorni in prima linea. La vita nei bordelli militari è stata raccontata in alcuni opere letterarie di importanti scrittori, che hanno partecipato alla Grande Guerra. In particolare, nel romanzo L’alcova di acciaio, Filippo Tommaso Marinetti (esponente del Futurismo), scrive: “Come si va al bordello di guerra, gonfio, rimpinzato di soldati… e con poche donne brutte, che frettolosamente meccanizzano il piacere, così si va all’assalto. Strafottenze per le malattie veneree e per la morte”.
Nel romanzo Giorni di guerra, Giovanni Comisso racconta che l’ingresso del bordello militare era ”pieno di soldati, molti scesi dalle trincee con il vestito pieno di croste di terra rossa”, che i soldi delle prestazioni erano raccolti da una “donna grassa e spavalda” e che sul muro era appeso un cartello con la scritta “Il coito sia breve”.
Luigi Bartolini, nel romanzo Ritorno sul Carso, scrive che i “soldati con i calzoni sbracati”, erano “in fila indiana, come ad aspettare il rancio, fermi dinnanzi a certi uscioli. Invece, aspettavano un’altra specie di rancio… Il secondo soldato aspettava lì, quasi addosso al compagno che lo stava precedendo”.
Le portatrici della Carnia
Nella Zona di guerra della Carnia (Friuli) c’erano circa 12.000 soldati, che dovevano ricevere, ogni giorno, tutto quello di cui avevano bisogno: munizioni, medicine, vettovaglie (cibo e bevande).
In alta quota non c’erano strade e l’unico mezzo per raggiungere le postazioni militari erano i tortuosi sentieri di montagna che non si potevano percorrere neppure con i muli, ma solo a piedi. Pertanto, il trasporto delle merci doveva essere fatto “a spalla”. Furono quindi arruolate migliaia di donne della zona, da 15 a 60 anni, che conoscevano bene i sentieri di montagna, che erano abituate da sempre a percorrerli, le quali raggiungevano i reparti lì stanziati portando sulla spalle grandi gerle, pesanti 30-40 kg, con dentro merce di ogni tipo.
Queste donne erano le leggendarie “portatrici”, che facevano parte di un Corpo di ausiliarie, non militarizzato, e quindi non erano soggette alla disciplina militare. Le portatrici avevano un libretto personale di lavoro nel quale erano segnati, dai militari addetti ai magazzini ed ai depositi militari ubicati delle retrovie, nel fondovalle, da dove si prelevavano le merci, sia le presenze giornaliere, sia i viaggi compiuti che le merci trasportate.
Leportatrici portavano un bracciale rosso, con stampato il numero del reparto militare dal quale dipendevano. Ogni giorno, all’alba, si presentavano, in gruppi di 15-20, al deposito o al magazzino militare da cui dipendevano, per caricare nelle gerle la merce loro assegnata e portarla al reparto stanziato al fronte, dopo una marcia di varie ore. Il percorso in salita, talvolta, superava il dislivello di mille metri. Il trasporto era molto difficile con la pioggia o peggio ancora con la neve, che ostacolava il cammino.
Ogni viaggio era pagato appena un lira e mezza, l’equivalente di una prestazione sessuale di 10 minuti di una prostituta!
Sono state arruolate circa 1.300 portatrici, la maggior parte di etnia friuliana, ma alcune erano anche di paesi lingua tedesca (Sappada, Timau) e slava (Resia), che erano stati evacuati dai nostri Comandi Militari all’inizio della guerra perché gli abitanti erano considerati “austriacanti”.
La portatrice più famosa è Maria Plozner Mentil, di Timau, Frazione del Comune di Paluzza (Udine), di 32 anni, ferita mortalmente da un cecchino austriaco il 15 febbraio 1916 e deceduta il giorno seguente. È l’unica deceduta in servizio. Fu sepolta nel cimitero di Paluzza, ma dopo la guerra le sue spoglie sono state trasferite nell’Ossario di Timau.
Altre tre sono state ferite, colpite dai cecchini austriaci.
Molte“lavoravano a maglia” salendo e scendendo. Riuscivano a fare una calza all’andata ed un’altra al ritorno. Le calze erano poi vendute ai soldati al fronte.
Talvolta, portavano a valle la barella con un ferito e mangiavano spesso il rancio insieme con i soldati. Ci sono stati anche casi di fidanzamento con i militari.
Nel 1997, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, ha conferito loro la Medaglia d’Oro al Valore Militare, alla Memoria. Lo stesso giorno, il presidente ha consegnato alle portatriciancora viventi, ormai novantenni, la Decorazione (costituita da una Croce greca, sorretta da un nastro con i colori della bandiera italiana) ed il Diploma di Cavaliere dell’Ordine di Vittorio Veneto, istituito con la Legge 18 marzo 1968 n.263, emanata per il Cinquantennale della Vittoria nella Grande Guerra, che prevedeva anche la concessione di un assegno vitalizio annuo di 60.000 lire, aumentato in seguito a 150.00 lire.
Alla memoria di Maria Plozner Mentil è stata intitolata la caserma degli Alpini di Paluzza, dismessa nel 1991 ed abbattuta nel marzo 2016, dopo 25 anni di abbandono.
Le Madrine di guerra
Nel corso della guerra fu molto attivo il cosiddetto “fronte interno”, che coinvolse gran parte della popolazione nell’appoggiare il conflitto e nell’assistere i combattenti e le loro famiglie.
Accanto ai comitati patriottici, che svolgevano attività di propaganda a favore della guerra, ci furono molte iniziative, a carattere volontario, per l’assistenza morale e materiale sia dei militari al fronte che dei loro familiari bisognosi, che coinvolsero soprattutto le donne, per il ruolo tipicamente femminile di “angelo custode e consolatore”, quasi sempre di estrazione borghese ed aristocratica, che lasciarono i “salotti” per dedicarsi a questa attività di volontariato.
Un esempio della grande attività di assistenza, svolta a carattere volontario dalle donne, è quanto accadde a Bologna, dove si costituirono nei primi anni del conflitto 110 opere di assistenza, di cui ben 72 erano gestite esclusivamente o prevalentemente da donne, che svolgevano attività di assistenza non solo ai combattenti al fronte, alle loro famiglie ed ai loro figli, ma anche ai militari ricoverati negli ospedali, ai prigionieri di guerra, ai mutilati ed invalidi. Inoltre, svolgevano attività anche in moltissimi altri settori, ad esempio dando informazioni sulle leggi e i regolamenti della leva e del servizio militare, prestando assistenza legale alle famiglie e raccogliendo fondi.
A Bologna nacque, per iniziativa della Contessa Lina Bianconcini Cavazza, subito dopo l’inizio del conflitto, nel giugno 1915, l’Ufficio per notizie alle famiglie dei militari di terra e di mare, che in poco tempo divenne una realtà molto radicata nel Paese, con 8.400 Sezioni ed uffici locali, che erano conosciuti da tutti i cittadini, come la Chiesa, il Municipio e l’ufficio postale. Svolse fino al 30 giugno1919, un’attività importantissima di sostegno ai militari e alle loro famiglie, riconosciuta subito dal ministero della Guerra con la Circolare n. 471 del 18 giugno 1915.
In queste opere di assistenza furono molto attive donne già impegnate nell’assistenza sanitaria e sociale, come le Dame della Croce Rossa, che assisterono i militari feriti negli ospedali e nei treni-ospedale, cercando di dare ad essi sollievo morale. Organizzarono anche attività ricreative nei luoghi di cura, soprattutto in occasione delle festività più importanti, come quelle natalizie, distribuendo doni ed allestendo alberi di Natale. Anche le Dame di Carità organizzarono serate di beneficienza per raccogliere fondi e beni di vario tipo (soprattutto alimenti e vestiario), a sostegno delle famiglie bisognose dei combattenti, soprattutto dei caduti e dei mutilati.
Nel corso della guerra nacque una forma nuova di assistenza femminile ai militari al fronte, svolta dalle cosiddette madrine di guerra.
L’idea di questa nuova figura assistenziale femminile nacque in Francia, quando alcuni ufficiali notarono che l’arrivo della posta causava tristezza nei militari che non la ricevevano. Lanciarono quindi un appello alle donne francesi invitandole a scrivere a questi soldati, i cui nomi furono forniti dai comandanti dei reparti, dai cappellani, dai commilitoni, dai parroci e anche dai sindaci.
L’iniziativa si estese rapidamente in altri Paesi. In Italia, fu promossa da alcuni Giornali, non solo femminili, come La Donna, e anche da associazioni femminili emancipazioniste. Pertanto, molte donne, non solo di estrazione borghese, scelsero un militare, chiamato “figlioccio”, da confortare, avviando con lui una fitta corrispondenza, con lettere e cartoline. In occasione delle festività e delle ricorrenze personali gli mandavano pacchi dono. Molte donne adottarono più soldati; spesso usarono nella corrispondenza uno pseudonimo e non mandarono la propria foto ai “figliocci” perché avevano famiglia.
Nella maggior parte dei casi, la Madrina ed il “figlioccio” non si conobbero mai di persona, ma in alcune situazioni, dal rapporto epistolare nacque l’amore ed i due si sposarono dopo la guerra.
Giorgio Giannini
BIBLIOGRAFIA
Giorgio GIANNINI, L’inutile strage. Controstoria della Prima guerra Mondiale, Luoghinteriori, Città di Castello (PG), 2018