“La busta era stata aperta e fermata con punti metallici. I bossoli all’interno erano diversi, qualcuno li aveva sostituiti. Lo dissi in aula, a Perugia, ma non rinvanghi tante cose, per carità, perché andiamo a finire male. Si rischia brutto. Perché con Pecorelli scappano fuori Moro e altre storie, ed è meglio lasciar stare”. Così risponde il perito balistico Antonio Ugolini alla giornalista Raffaella Fanelli nell’intervista da lei raccolta per il suo libro “La strage continua”, sottotitolo “La vera storia dell’omicidio di Mino Pecorelli”, uscito in queste settimane per i tipi della casa editrice Ponte alle Grazie. E alla domanda successiva, se avesse paura, la risposta è secca: “Voglio morire nel mio letto”.
E’ singolare poi che anche Maurizio Abbatino, della banda della Magliana, protagonista di un precedente libro di Fanelli “La Verità del Freddo” (Ponte delle Grazie editore) afferma, riguardo al giornalista ammazzato: “I servizi sono coinvolti. Per questo l’omicidio Pecorelli è da chiudere senza colpevoli. Lascia perdere”.
Ma Fanelli non lascia perdere e si ostina nella sua inchiesta, interrogando tutti i testimoni ancora in vita dell’epoca, che non era un’epoca tra le più tranquille, caratterizzata da una serie di tentativi di colpi di Stato, da quello del generale De Lorenzo a quello di Junio Valerio Borghese, di stragi, quelle sui treni, quella alla stazione di Bologna e di piazza Fontana a Milano, e di sequestri e omicidi eccellenti, quello di Aldo Moro, sopra tutti, e alcuni dei quali fatti passare per suicidi come quello del colonnello Rocca, agente del Sid. Tutta roba della quale si parla da anni, materia di non pochi libri d’inchiesta e anche romanzi (fresco di stampa “Strage” del giallista Loriano Macchiavelli, Einaudi), della quale in pratica si saprebbe tutto ma, nello stesso tempo, non si sa niente, perché tutti i nomi, non di secondo piano, venuti alla ribalta nelle varie indagini e inchieste giornalistiche, da Andreotti, per restare al processo per l’omicidio di Pecorelli celebrato a Perugia, a Licio Gelli, da Stefano Delle Chiaie a Giannettini a Federico Umberto D’Amato, Massimo Carminati, Valerio Fioravanti, e dal generale Miceli all’ammiraglio Maletti, capi del Sid, si sono, in un modo o nell’altro, liquefatte ai vari processi, finiti per lo più con assoluzioni o condanne, perse negli stadi successivi.
In questo contesto, cosa c’entra Mino Pecorelli? C’entra. Lo fa nella misura in cui il giornalista con il suo settimanale OP si gettava in inchieste che indagavano a fondo sui retroscena, mandanti ed esecutori di quei tentativi di colpi di stato, stragi, omicidi, con un intreccio di complicità che vedeva coinvolti i servizi segreti, deviati o meno, le istituzioni, la banda della Magliana, i NAR, le Brigate Rosse, la P2, l’Ufficio affari Riservati del Ministero dell’Interno, singoli politici e che finivano per inchiodare i vari protagonisti
alle loro gravi responsabilità e al pubblico ludibrio.
“Mino Pecorelli stava indagando su colpi di Stato e massoneria. Sulla strage di Piazza Fontana e sul
fallito golpe Borghese. Sul coinvolgimento di Avanguardia Nazionale. Cercava risposte sullo strano suicidio di Renzo Rocca, il colonnello che aveva gestito i finanziamenti dell’intera attività anticomunista in Italia, e sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro. Sappiamo che ‘aspettava del materiale importante’.
Documenti che avrebbero rivelato l’esistenza di un sottile filo rosso (o nero) capace di collegare tra loro
fatti importanti e tragici avvenuti nel nostro Paese” scrive Fanelli.
Per questo motivo Pecorelli era ritenuto pericoloso e, a un certo momento, meritevole di essere fatto fuori.
Cosa che avvenne alle otto di sera del 20 marzo del 1979, con quattro colpi di calibro 7,65 sparati in pieno viso, in bocca, in via Orazio a Roma, a pochi passi dalla redazione del suo giornale, dalla quale era appena uscito. Inutili tutti i tentativi di addomesticarlo. In fasi diverse, in redazione era pure arrivato qualcuno, come il giornalista Franco Simeoni, che era la lunga mano del capo del SID del tempo, Eugenio Henke, e del controspionaggio Giuseppe Fiorani. Scopertolo, Pecorelli si affrettò a mandarlo via; così come mandò via Nicola Falde, ex ufficiale del SID, che lo aveva pure sostituito per alcuni mesi alla guida di OP. Da parte sua, invece Licio Gelli, più scopertamente, gli aveva proposto di comprargli il giornale.
Ma tutto proseguì come sempre. Intanto, però, prima di passare a quell’ultimo atto, si era cominciato contro di lui la politica del fango, cioè a sporcarne l’immagine, tuttora dura a morire, facendolo passare per un giornalista che viveva di ricatti. Certo, come ogni giornalista d’inchiesta che si rispetti, si avvaleva di contatti di ogni tipo, nel caso specifico nei servizi segreti, di frequentazioni con informatori a ogni livello da cui attingere notizie riservate e altre fonti, comprese quelle politiche, ma una volta comprovata la verità Mino Pecorelli non esitava a scriverne, senza remore né interessi personali di sorta, gettando settimanalmente nel panico un po’ di gente. Lo faceva con l’intento di svelare le verità che si
nascondevano dietro tutti quei tragici fatti che negli anni avevano turbato l’opinione pubblica gettando il Paese nella paura.
Raffaella Fanelli ha scritto questo libro, con il supporto anche della sorella di Mino, Rosita, che da una vita si batte per riabilitarne il nome, e che ha firmato anche la prefazione, e dai figli di lui, Stefano e Andrea, il primo dei quali racconta nella intensa postfazione “Mino Pecorelli era mio padre” le dolorose conseguenze di quell’omicidio e della falsa leggenda messa in piedi per screditarne la figura, che attende ancora di essere riabilitata come si deve.
“Chi sparò su mio padre, quella sera, sparò anche su di me e su mio fratello Andrea, ma questo, forse, non può saperlo, non sa che le nostre vite sono state segnate dai suoi colpi di pistola e dall’assenza di verità.”
Quella verità che il libro inchiesta di Raffaella Fanelli persegue portando alla luce quanto emerso in questi quarant’anni e passa che sono trascorsi dalla sera dell’omicidio, facendone un racconto avvincente, ricco di informazioni, di ipotesi convalidate dalle prove e dalle testimonianze che ha raccolto, indicando nomi, circostanze, obiettivi. Un grande giallo che ruota intorno all’omicidio di un uomo, un giornalista scomodo, ucciso perché sapeva troppo. Quel troppo tutto nascosto forse dietro un’unica regia, la cui firma sono le quattro pallottole che gli hanno chiuso la bocca per sempre.
Raffaella Fanelli, La strage continua – La vera storia dell’omicidio di Mino Pecorelli, Ponte delle Grazie, pag. 217, €. 16,00