Pochi giorni fa si celebrava la Giornata Mondiale del Rifugiato. Una ricorrenza istituita dalle Nazioni Unite nel 2000, a cinquant’anni dalla Convezione relativa allo Status di Rifugiato, per sensibilizzare la comunità internazionale sull’importanza di prevenire e risolvere conflitti e garantire la pace e la sicurezza dei rifugiati.
A prescindere dalle valutazioni di merito sull’efficacia di questa come di altre “giornate mondiali” dedicate a temi cruciali del nostro tempo, merita una riflessione il fatto che, periodicamente, si senta il bisogno di istituire un momento di ritualità convenzionale per accendere i riflettori su un’urgenza a cui l’uomo non sta dando sufficiente peso. Pensiamo alle giornate mondiali dell’acqua, del clima, dell’ambiente, della solidarietà. Temi per i quali ogni giorno dell’anno dovrebbe essere quello “mondiale”, che unisce e mobilita tutti verso un obiettivo comune. Temi su cui, come nel caso dello status di rifugiato, vigono convenzioni e trattati internazionali, ampiamente recepiti e resi vincolanti a livello europeo e nazionale. Eppure i contrasti e le ferite quotidiane su questi ed altri temi e valori, talmente fondamentali da sembrare ovvi, rendono queste ricorrenze una sorta di giornata del pentimento o del perdono, in cui la retorica dilaga, le soluzioni proliferano come slogan pubblicitari, ma che puntualmente si concludono dandosi appuntamento all’anno successivo, quello della svolta, quella vera.
Proprio a ridosso della Giornata Mondiale del Rifugiato, stridono e sconvolgono ancor di più gli sviluppi della vicenda “Sea Watch 3” la nave della ONG tedesca che, dopo numerosi giorni di rifiuti e attese (ricordiamo che ai sensi delle convenzioni internazionali UNCLOS e SAR, un’operazione di soccorso in mare non può dirsi conclusa fino allo sbarco dei soggetti salvati in un luogo sicuro), ha deciso di violare i divieti delle autorità italiane e, dopo aver varcato la soglia delle nostre acque territoriali, ha fatto sbarcare 42 migranti soccorsi al largo della Libia nel porto di Lampedusa, rischiando condanne penali per il personale di bordo e sequestro del mezzo.
E lo sconvolgimento nasce anche dal fatto che questa, come tante altre simili vicende degli ultimi anni, spesso con esiti ben più drammatici, non solo non accennano a diminuire, ma non sono neppure riusciti a sensibilizzare o ad “umanizzare” l’opinione pubblica e la politica notoriamente ostili all’accoglienza e all’integrazione di migranti e rifugiati. Viceversa hanno contribuito ad estremizzare il divario tra chi strumentalmente cavalca la narrativa dei “taxi del mare” e del pericolo e della paura dell’invasione migratoria, da un lato, e chi, se pur con le migliori intenzioni, enfatizza solo e soltanto le urgenze di tutela dei diritti umani di persone in grave difficoltà. Lo scontro e il divario tra queste due visioni ormai occupa e asfissia il dibattito pubblico rendendo totalmente superficiale e sterile la discussione, ma soprattutto fornisce una visione del tutto parziale di quelle che sono le criticità, ma anche le opportunità legate all’accoglienza e all’effettiva integrazione di rifugiati all’interno del contesto europeo e internazionale.
Oltre a questa stucchevole diatriba tra presunti invasori ed eterni disperati c’è, infatti, un contesto in rapida evoluzione che approccia i rifugiati come una fonte di crescita e sviluppo economico-sociale, che individua strumenti di policy e integrazione incentrati su iniziative imprenditoriali e che, addirittura, identifica i rifugiati e le loro iniziative come possibili target di investimenti a impatto.
Recentemente, tre ricercatori dell’Institute for Employment Research tedesco (Herbert Brucker, Philipp Jaschke e Yuliya Kosyakova) hanno presentato i dati relativi all’incidenza di determinati fattori connessi alla durata e all’esito delle domande di asilo in Germania, oltre che alla possibilità, per richiedenti asilo e rifugiati di frequentare corsi di lingue ben strutturati e di accedere al servizio sanitario, sulle probabilità, per gli stessi soggetti, di ottenere un impiego stabile e di completare un percorso di effettiva integrazione. I dati parlano di un aumento di circa il 50% delle probabilità di ottenere un impiego stabile per soggetti che ottengono lo status di rifugiato in tempi rapidi, frequentano da subito percorsi intensivi di lingua tedesca e ottengono l’accesso al servizio sanitario. Verrebbe da dire: c’era bisogno di uno studio per avere evidenza del fatto che chi può giovarsi di queste condizioni ha molte più chances di ottenere un impiego e di integrarsi rispetto a chi non se ne può giovare? Probabilmente no. La vera rilevanza di questo studio, soprattutto in ambito europeo, non è però nei dati, quanto nelle finalità dell’iniziativa e nell’istituto che l’ha condotta. Parliamo, infatti, di un soggetto pubblico, istituito e finanziato per studiare meccanismi di creazione d’impiego in Germania, che ha investito per individuare le misure che possono favorire l’integrazione dei rifugiati attraverso un impiego stabile. E questo non certo per dare sfogo ad accorati afflati filantropici, ma perché i rifugiati, aldilà dei drammatici trascorsi che li precedono, costituiscono una concreta risorsa di crescita e sviluppo economico per i Paesi ospitanti. E l’esperienza tedesca non è un caso isolato.
Il Global Compact sui Rifugiati, adottato lo scorso dicembre dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e recepito da gran parte degli Stati Membri (compresa l’Italia), punta a rafforzare le infrastrutture e i servizi a beneficio sia dei rifugiati che delle comunità ospitanti incentivando l’adozione di politiche e misure che consentano ai rifugiati di accedere all’istruzione e di condurre una vita produttiva dignitosa durante il periodo in cui sono in esilio.
L’Unione Europea stanzierà risorse considerevoli all’interno del Multiannual Financial Framework (MFF) 2014-2020 proprio a sostegno di iniziative che favoriscano un’efficace e sostenibile integrazione dei rifugiati all’interno delle comunità ospitanti nel pieno rispetto dei 2030 Sustainable Development Goals (SDGs).
La Finlandia ha sperimentato con successo un Social Impact Bond (KOTO SIB) supportato dal Fondo Europei per gli Investimenti (FEI) proprio incentrato sull’integrazione lavorativa, finanziaria e sociale dei rifugiati.
Ma anche il settore privato, in particolare quello dell’impact investing, ha dato segnali significativi di voler invertire la narrativa emergenziale sui rifugiati, approcciandoli invece come un normale target di investimento. Da qui la recentissima creazione del Refugee Investment Network (RIN), una piattaforma globale nata dall’idea di favorire il contatto tra investitori e imprenditoria creata e condotta da rifugiati.
Infine, a marzo 2019, l’UNHCR ha premiato, per il secondo anno, le aziende italiane che si sono contraddistinte per aver favorito l’inserimento professionale dei rifugiati e per aver sostenuto il loro processo d’integrazione in Italia. Tra le 75 aziende premiate che, per l’anno corrente, potranno fregiarsi del logo “Welcome – Working for refugee integration”, figurano anche realtà molto importanti come Barilla, Gucci, Sky Italia, Roberto Cavalli, Adecco Italia, Decathlon Italia, Mantero Seta, Sodexo, Brembo, Scame Parre, Freudemberg e JW Marriott Venice Resort & Spa.
Questi sono soltanto alcuni esempi di come, lontano dai riflettori della bagarre politica sulle operazioni di salvataggio in mare, il tema dei rifugiati può essere affrontato, con efficacia e soddisfazione, da attori pubblici e privati.
In questo contesto il governo italiano sta scrivendo oggi una delle pagine più buie della propria storia, adottando misure (in particolare i due ultimi Decreti Sicurezza) che fiaccano e ostacolano tutte le iniziative che, dal salvataggio in mare al supporto all’integrazione condotta dalla rete SPRAR, mirino ad affrontare i flussi di migranti e rifugiati come un fenomeno non più emergenziale ma endemico del nostro tempo con cui si può e si deve convivere, e da cui si possono anche trarre benefici e speranze per il futuro del nostro Paese. Speriamo non servano troppe altre giornate mondiali del “perdono” verso i rifugiati perché le politiche di sorveglianza, polizia e barriera si dimostrino definitivamente insensate e fallimentari e si torni a riscrivere una storia di crescita fatta anche e soprattutto di contaminazione e integrazione.
Emiliano Giovine