Dai giornali – 2 marzo Londra, sì sono svolte le finali del Campionato Europeo di video giochi. Questa edizione dei campionati è stata dedicata al video gioco che impazza da tre anni: “Guerra in Ucraina” ed è stata vinta dalla coppia Macron-Starmer. Non cercate questa notizia sui giornali, è una fake, pure di scarsa qualità, ma la sensazione è forte. Mai come in questi tre anni le dichiarazioni (molte) e le azioni (poche) dei leader mondiali sembravano avere come teatro un videogioco più che la realtà, ispirati più a ottenere i like che ad affrontare seriamente il problema della guerra guerreggiata in Ucraina.

Nessun concreto piano di pace e, se anche orribile a dirsi, nemmeno un serio piano di guerra. Mai come in questa occasione la “guerra” è qualcosa che si è vista nella sua dimensione digitale e non certo reale. Per i cittadini europei è stata una sorta di videogioco, non ci sono stati soldati europei sul campo né allarmi che hanno suonato a disturbare la quiete notturna degli abitanti delle capitali europee. Abbiamo dormito sereni senza sirene (una i che fa la differenza) mentre a pochi chilometri da noi si moriva. Abbiamo vissuto questi tre anni quasi fossimo nella casa del Grande Fratello. Una dimensione digitale che sta diventando il nostro modo di rapportarci al mondo.

Morte, Dolore, Sacrifici, appartengono agli affreschi medievali o sono solo argomenti per una puntata Tv. Tutte le dichiarazioni dei leader, ben prima della recita di Trump, erano improntate a chi la sparava più grossa, come avviene nei social, quasi che poi prima o poi non ci si sarebbe dovuti sedere a un tavolo delle trattative con Putin. La conferenza di Trump con Zelensky ha rappresentato però un punto di svolta, e non solo nello scenario politico, cosa di cui si sono occupati tutti i media, ma ha rappresentato anche una ridefinizione, post-moderna, del concetto di normalità.

Fin qui i fatti, ma quello a cui vale la pena prestare attenzione sono i cambiamenti delle forme della narrazione, una modificazione della struttura semiotica che regola il rapporto narrazione-realtà, in un settore delicato come la politica estera e la sicurezza dei popoli. La politica estera e la guerra, che ne è sempre stata la sua continuazione con strumenti diversi, sono sempre stati caratterizzate da bugie ben raccontate, secondo protocolli ben definiti. Narrazioni in cui la grammatica era corretta e la sintassi sbagliata, per dirla in maniera più semplice, si ostentava una forma perbenista per fare cose indicibili, come se fossimo in un sogno o in un film surrealista, per cui si dicevano le cose sbagliate in bella forma.

L’incontro dello studio ovale ha ribaltato questo schema e ci ha portati nel “Castello delle Cerimonie “, un mondo pacchiano dove è la grammatica a essere sbagliata e non necessariamente la cosa in sé. Le regole della diplomazia, che hanno regolato per anni i rapporti tra gli Stati sono stati distrutti, tutto in presa diretta e soprattutto senza lasciarsi uno spiraglio, una via d’uscita, perché tutto era “senza se e senza ma”.

Non tocca a me definire chi abbia torto o ragione, cosa su cui si sono esercitati più o meno tutti, voglio invece concentrarmi sui cambiamenti delle forme della narrazione. La reazione unanime alle cose dette nella conferenza stampa non ha messo in discussione l’oggetto in sé ma la forma, quello che ha infastidito è stato il come più che la cosa. Vivere in diretta social mettendo da parte “l’ipocrisia della educazione” e della diplomazia vuol dire regredire allo stadio Sadico-anale, quando con il vasino andiamo in giro per casa a far vedere le nostre opere d’arte. Uno stadio che con dolore superiamo per diventare adulti e questo ci permette di vivere nella società, dove ci sono anche gli altri, accettando regole e compromessi.

Tutto ciò non c’è stato, abbiamo contato i like mentre sul campo si contavano i morti, i “poveri morti, poveri vivi “, come scriveva Gadda. Ecco perché, quando Trump ci ha sbattuto in faccia la sua verità abbiamo barcollato. Ma quelle dichiarazioni così brutali costringeranno i popoli europei e i leder a prendere coscienza che la guerra è una brutta cosa reale. Vivere sui social e nei video giochi non solo implica un cambiamento di linguaggio, di grammatica appunto, ma rischia di allontanarci dalla realtà che viene vista non più come fondamento ma quasi come fastidio.

Si pensi a tutto il dibattito sulla cultura woke e la cancel culture, sia da parte di chi la propugna sia da parte di chi la condanna, tutte e due le posizioni chiuse nel modo digitale e nessuno che parli di “ricchi” e di “poveri”, di persone insomma. La guerra è qualcosa di reale e il dibattito sul che fare, in Ucraina come dovunque, non può che partire da questa concretezza, superando la nostra ipocrisia di persone sdraiate sui divani. Ecco perché dobbiamo uscire dal “video gioco” e assumerci la responsabilità, prima ancora che delle nostre azioni, delle nostre dichiarazioni.

Non condivido nulla di ciò che fa e dice Trump ma per certo il merito di avere rotto il velo della nostra ipocrisia, lo ha avuto. Adesso a noi decidere e parlare sapendo che il sì, sia sì e il no, sia no. Solo recuperando la potenza della parola possiamo ancora sperare di comporre i conflitti umani in maniera non violenta. In fin dei conti il campo semiotico è stato costruito dagli umani per superare le reazioni ferine. Il cortocircuito dei social per cui nulla ha peso ed è riconducibile alla realtà è il vero pericolo per tutta l’umanità.

Domenico Ioppolo

AD Campus

Direttore Scientifico Milano Marketing Festival

Domenico Ioppolo

Domenico Ioppolo è amministratore delegato di Campus (Gruppo Class) e direttore scientifico del Milano Marketing Festival. È stato Managing Director Emea di Nielsen Media, Ad di WMC, Initiave Media e...

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