Ci siamo persi qualcosa? Ci siamo distratti? Ci stiamo sbagliando oppure dal giorno della proclamazione dei risultati del referendum sulla riduzione del numero dei nostri parlamentari, ci hanno detto che si sarebbe dovuto subito mettere mano alla legge elettorale per renderla coerente con l’esito referendario? Va bene che il nostro Paese sta affrontando altre priorità rilevanti; va bene che la pandemia abbia messo il “coperchio” su tutte le nostre magagne nazionali, ma non sarebbe arrivato il momento di riparlarne? Di rimettere sul tavolo, seriamente, il tema della nuova legge elettorale? Magari, proprio, approfittando dell’esistenza di una coalizione di governo con una maggioranza parlamentare quasi “bulgara”.
Il tema è troppo spinoso e rischioso? Meglio non affrontarlo e lasciarlo in soffitta? Ci rendiamo conto, però, che continuando a ragionare così saremmo sempre “sotto ricatto” di non poter andare a votare?
Dopo la sentenza della Corte Costituzionale e il risultato del referendum, andare alle elezioni anticipate sarebbe come aprire un gigantesco contenzioso fra tutte le parti in causa che avrebbero, in caso di sconfitta, mille appigli legali da invocare in un contesto normativo che attualmente fa acqua da tutte le parti. Questa, secondo alcuni, è, da un lato, una spada di Damocle ma dall’altra uno scenario che consente anche operazioni miracolistiche e virtuose: sì, proprio come il Governo Draghi, nato dall’inopportunità di andare alle elezioni anticipate innanzitutto durante una pandemia, ma poi anche a causa di un testo di legge elettorale non completo, pieno di lacune e contraddizioni, superato dall’esito del referendum.
E allora che fare?
Proviamo a tornare ai fondamentali della questione. Al “dove eravamo rimasti” dopo le alterne e bizzarre esperienze del proporzionale, del maggioritario, del maggioritario rettificato da una quota proporzionale, del proporzionale rettificato da un “pezzo” di maggioritario. Partiamo, in questa analisi, da alcuni punti fermi, almeno, a nostro avviso. L’esperienza di questi ultimi trent’anni, dal referendum vittorioso indetto da Mario Segni in avanti, ci porta a due riflessioni: (i) non più soluzioni con liste bloccate; (ii) non più soluzioni raffazzonate, “figlie” di calcoli partitici legati al contesto del momento in Parlamento. Negli ultimi mesi si era parlato di un ritorno al proporzionale puro, con ovvia soddisfazione dei piccoli partiti concentrati ad ottenere una soglia di sbarramento coerente con la quota di consenso dichiarata nei sondaggi elettorali. Enrico Letta, appena nominato segretario, ha fatto cadere questa ipotesi.
Il non aver affrontato seriamente questa materia negli ultimi decenni, ha portato il nostro Paese a vivere situazioni surreali, difficilmente raccontabili e comprensibili per uno straniero.
Basti soltanto l’ultimo esempio della alternanza al Governo di due coalizioni di colori diversi, la prima giallo/verde, la seconda giallo/rossa, con lo stesso presidente del Consiglio. Un’acrobazia politica degna delle menti più sofisticate che hanno dato il meglio di sé stesse nella redazione dell’ultima legge elettorale. Noi crediamo che ogni riforma della legge elettorale debba partire dai diritti dell’elettore, dal mettere al centro di tutti i progetti le volontà, gli auspici, le opinioni dei cittadini elettori.
La sequela dei progetti come il Mattarellum, il Porcellum, l’Italicum e il Rosatellum hanno rappresentato semplicemente dei tentativi di trovare un compromesso ragionevole tra quote di maggioritario e quote di proporzionale. Perdi nel maggioritario, hai la possibilità di recuperare nella quota del proporzionale. Pur avendo perso ti puoi sedere in Parlamento di fianco al vincitore, con gli elettori sorpresi, spaesati, contrariati per non dire frustrati e disillusi per l’inutilità del loro voto. Ma c’è un fatto più grave: gli ultimi modelli partoriti dalla creatività degli specialisti della materia (Calderoli su tutti) hanno sostanzialmente concentrato nelle segreterie dei partiti tutte le decisioni sulla scelta dei candidati. L’effetto più evidente è costituito dai cosiddetti collegi sicuri dove l’elettore si trova di fronte a un candidato deciso magari lontano dal suo territorio e con l’unica scelta per contestare tale soluzione, di non andare a votare.
Inoltre, altro sfregio al diritto dei cittadini elettori, oltre 1/5 dei nostri parlamentari siede in Senato o alla Camera dei Deputati grazie a rinunce di colleghi che si sono presentati in più seggi.
Un’altra distorsione di questo modello ci è stata fornita dal caso del PD: quando Zingaretti è stato nominato segretario del partito, tutti i gruppi parlamentari erano nelle mani dei renziani, preselezionati e scelti dal precedente segretario, appunto Matteo Renzi.
Questi, a nostro avviso, sono i punti principali che bisogna cercare di riformare ritornando a dare ai cittadini elettori il potere decisionale sia sui simboli dei partiti, ma sia, soprattutto, sui nomi dei candidati da mandare in Parlamento.
Quale può essere il sistema elettorale che dopo tante disillusioni accadute negli ultimi trent’anni, potrebbe raggiungere quegli obiettivi che abbiamo cercato di esporvi in questa riflessione?
Crediamo che l’esempio francese, di una legge elettorale cioè a doppio turno che salvaguardia nel complesso (i) sia la scelta dei candidati, (i) sia il diritto degli elettori a sceglierli, (iii) sia una rappresentanza corretta delle volontà della maggioranza dei cittadini, (iv) sia l’efficienza di una maggioranza proveniente da un secondo turno che ha costretto i vari partiti a coalizzarsi per sperare di superare l’avversario, permette al sistema e soprattutto al vincitore di poter governare.
Il modello francese è stato spesso invocato come il miglior esempio europeo, il più adatto alle caratteristiche culturali e territoriali del nostro Paese.
Non si è mai arrivati ad una conclusione, ad una sua declinabilità italiana. L’esempio della legge elettorale che riguarda gli enti pubblici territoriali, dovrebbe indicarci la strada giusta da seguire: i sindaci sono eletti da una vera maggioranza dei cittadini del loro comune, hanno la possibilità di governare con una maggioranza solida, sono “figli” di una selezione meritocratica che i partiti sono obbligati a fare per sperare di vincere.
Oggi, nel nostro Paese, i sondaggi fotografano una situazione inedita: quattro partiti che hanno sostanzialmente gli stessi indici di consenso. Due collocabili nel centro destra (Lega e FdI), due nel centro sinistra (PD e M5S) con Forza Italia, in leggera crescita, al centro. I problemi di condivisione dei programmi e dei candidati sono evidenti e macroscopici: basta guardare cosa sta accadendo per le elezioni amministrative in alcune grandi città , previste per ottobre. Battibecchi quotidiani, in tutti gli schieramenti, praticamente su tutto.
Quale legge elettorale in questo scenario? Il quesito presenta tali complessità che la questione è finita di nuovo in soffitta.
A nostro parere, il modello francese, con una revisione preventiva dei collegi elettorali e una riscrittura contestuale dei regolamenti delle Camere, sarebbe la soluzione migliore, costringendo i partiti a coalizzarsi o meno prima e in modo trasparente tra di loro, rispettando nel contempo la volontà dei cittadini sulla scelta dei candidati e garantendo altresì delle maggioranze stabili per la governabilità del Paese.
Riccardo Rossotto