Otto mesi dopo la fine della Grande Guerra, il 28 luglio 1919 il ministro della Guerra, generale Alberico Albricci, incaricò il tenente generale Donato Antonio Tommasi, che era stato avvocato generale militare dell’esercito durante il conflitto, di fare in breve tempo una indagine sulle “esecuzioni sommarie”, la cui gravità era emersa durante i lavori della Commissione di inchiesta sulla “disfatta di Caporetto” della fine dell’ottobre 1917, in modo che l’indagine, con un giudizio di legittimità su ciascun caso documentato, potesse essere messa a disposizione della Commissione, in previsione della discussione sulla Relazione finale, in programma per la metà del settembre 1919.
Il generale Tommasi concluse l’indagine in neppure due mesi, in piena estate, esaminando la documentazione conservata nell’Ufficio Reparto disciplina, avanzamento e giustizia del Comando Supremo durante la Grande Guerra, diretto dal generale Giuseppe Della Noce. Nella sua Relazione affermò di aver trovato molte difficoltà nella sua inchiesta sia perché molti casi di esecuzioni sommarie, anche se segnalati all’Ufficio, non gli furono comunicati, sia perché molti documenti erano stati distrutti durante la ritirata di Caporetto, sia perché numerosi documenti pervenutigli erano incompleti. Ciononostante riuscì ad esaminare 43 casi di esecuzioni sommarie, che illustrò nella Relazione presentata al ministro Albricci all’inizio del settembre 1919, che però non fu discussa nella Commissione di inchiesta su Caporetto dato che non è citata nella Relazione, approvata dalla Camera dei Deputati il 19 settembre, con l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Vito Luciani, che parlò solo di 109 soldati fucilati senza processo. Invece nella Relazione di Tommasi, che è stata scoperta per caso dal giornalista Stefano Canzio, che la citò nell’articolo Caporetto senza veli, pubblicatonell’ottobre 1966 sulla rivista Calendario del Popolo, di Milano, si citano almeno 152 vittime (perché in tre casi il numero delle vittime era imprecisato).
Riguardo alla legittimità delle esecuzioni sommarie, Tommasi riferì che solo in 17 dei 43 casi, erano “giustificate”, e quindi legittime, con oltre 65 vittime. Invece, in 5 casi, con 15 vittime, erano “ingiustificate”, mentre in 3 casi, con 15 vittime, erano ritenute “improcedibili”. In altri 18 casi, con almeno 60 vittime, non aveva potuto esprimere il parere sulla legittimità perché le esecuzioni erano “scarsamente documentate”.
Nel 1988 due giovani ricercatori, Marco Pluviano e la moglie Irene Guerrini, hanno trovato nell’archivio del Museo del Risorgimento di Milano una copia della Relazione e l’hanno studiata attentamente. In seguito hanno effettuato una accurata ricerca in vari archivi pubblici, nella memorialistica sulla Grande Guerra e sui giornali dell’epoca, in particolare il quotidiano socialista Avanti!, ed hanno trovato la menzione di molte altre esecuzioni sommarie, per un totale di circa 350 vittime, oltre il doppio di quelle citate nella Relazione Tommasi.
Vediamo ora due casi di esecuzioni sommarie collettive, considerate dal generale Tommasi “ingiustificate”, e quindi illegittime, e due casi di esecuzioni “scarsamente documentate” dai comandanti che le avevano ordinate e quindi probabilmente anche esse illegittime. In questi ultimi due casi, l’invio della documentazione era stato ripetutamente sollecitato dal Comando Supremo e dai comandi di Armata; pertanto, non avervi ottemperato da parte dei comandanti che avevano ordinato le esecuzioni sommarie costituiva una violazione disciplinare, che però non era stata applicata. Per questo il generale Tommasi ritenne necessario un “supplemento di indagine” che però non fu mai fatto.
La fucilazione di 7 soldati del 38° Reggimento di fanteria della Brigata Ravenna per rivolta il 21-22 marzo e l’8 aprile 1917
La Brigata Ravenna (della 7a Divisione), costituita dal 37° e dal 38° reggimento di fanteria, dipendeva dalla Zona di Gorizia, il cui comandante era il generale Luigi Capello.
Il Comando della Zona di Gorizia aveva da tempo “attenzionato” il comportamento dei fanti della Brigata dato che c’erano state molte diserzioni nel 37° reggimento ed un cartello considerato “sovversivo” era stato scoperto negli acquartieramenti del 38° reggimento.
La rivolta scoppiò tra i soldati del 38° reggimento, schierato nei pressi del Ciglione di Savogna d’Isonzo, sul Carso, perché, dopo 40 giorni di presenza in prima linea, invece di andare in “riposo” nella zona di Moraro, furono mandati a Vertoja Inferiore, che era il punto più terribile del settore di competenza della Brigata.
La sera del 21 marzo 1917, dopo aver ricevuto l’ordine di trasferimento a Vertoja due plotoni della 7a compagnia del 38° reggimento si rivoltarono, rifiutando di partire e si dileguarono approfittando dell’oscurità. Ci fu anche una scaramuccia con il ferimento di due soldati.
Il generale Giuseppe Pistoni, comandante della Brigata, si attivò subito, insieme con altri ufficiali del reggimento, per persuadere i soldati a partire. Intanto, della rivolta era stato avvisato sia il generale Domenico Guerrini, comandante della 7a Divisione, sia il generale Carlo Carignani, comandante del VII Corpo d’Armata, il quale ordinò a Pistoni di “passare per le armi” i rivoltosi, usando anche le autoblindo. Allora Pistoni cercò di nuovo di convincere i rivoltosi a rientrare nei ranghi, minacciando l’uso delle autoblindo. A questo punto la rivolta rientrò ed i soldati dei due plotoni si misero in marcia per raggiungere la zona di Vertoja.
Intanto il generale Carignani aveva ordinato al generale Guerrini, comandante della 7a Divisione, di recarsi al Ciglione di Savorgna per verificare la situazione. Arrivò sul posto quando i due plotoni erano partiti. Però, ispezionando gli acquartieramenti, trovò in una baracca due soldati ed ordinò che fossero subito “passati per le armi”.
Ordinò quindi che fosse fucilato un soldato ogni 25 componenti dei due plotoni che si erano rivoltati. Così, il giorno seguente, 22 marzo, furono estratti a sorte, come normalmente si faceva nelle decimazioni, cinque soldati, ritenuti i “più indiziati” (cioè i sobillatori dei commilitoni), i quali furono subito fucilati alla presenza del reggimento schierato, per “dare l’esempio”.
Il 22 marzo il generale Capello inviò al Comandante Supremo Luigi Cadorna un telegramma nel quale lo informava brevemente sui fatti accaduti ed annunciava che era stato costituito un Tribunale straordinario per giudicare un sergente ed alcuni soldati considerati gli “incitatori dei disordini”. Il processo si concluse rapidamente con tre condanne a morte, che furono subite eseguite. Sempre il 22 marzo il generale Capello, con un ordine del giorno, informò delle esecuzioni sommarie tutti i reparti dipendenti dal Comando della Zona di Gorizia.
Il 24 marzo Capello inviò una Relazione sulla rivolta al Comando Supremo.
Intanto, 23 soldati che avevano partecipato alla rivolta furono deferiti nel mese di marzo al Tribunale militare ordinario del VII Corpo d’Armata, che ne condannò 22 a varie pene e ne assolse uno per non aver commesso il reato, in quanto non aveva partecipato alla rivolta. Però, il Comando della Zona di Gorizia, non soddisfatto dell’assoluzione, ordinò una ulteriore indagine al generale Carignani, comandante del VII Corpo d’Armata, il quale fece infiltrare alcuni carabinieri nei reparti, i quali riferirono che c’era un gruppo di “sobillatori”, di cui facevano parte non solo soldati, ma anche graduati, sottufficiali ed un aspirante ufficiale.
La mattina dell’8 aprile, furono arrestati 95 militari: 12 furono processati subito da un Tribunale straordinario, appositamente convocato, che condannò a morte un caporale e due soldati, compreso quello che era stato in precedenza assolto, ed un sergente ed altri quattro soldati furono condannati a 15 anni di reclusione militare. Gli altri 83 militari furono portati in carcere a Moraro in attesa del processo davanti al Tribunale militare ordinario.
Anche i comandanti subirono sanzioni: il generale Guerrini, comandante la 7a Divisione, subì un severo rimprovero per essere stato troppo clemente; il generale Pistoni, comandante la Brigata Ravenna, il colonnello Giuseppe Cora, comandante del 38° reggimento furono rimossi dal comando. Riguardo alla 7a compagnia, il capitano comandante fu rimosso e sottoposto al consiglio di disciplina; tutti i graduati (caporali e sottufficiali) furono retrocessi di grado; la compagnia fu sciolta e i componenti assegnati ad altri reparti del reggimento. Inoltre, furono sospese le licenze a tutti i militari del 38° reggimento, nel quale furono infiltrati vari carabinieri con l’ordine “di sparare contro chiunque tenti di abbandonare il posto in trincea”.
La rivolta, con le esecuzioni sommarie e gli altri provvedimenti adottati furono annotati nel Diario del reggimento, redatto dal comandante interinale, il tenente colonnello Pietro Benfi.
Inoltre, considerata la rilevanza dei fatti accaduti nella Brigata Ravenna, se ne occupò anche la Commissione di inchiesta su Caporetto, dedicandovi alcune pagine della Relazione finale, considerandola un esempio eclatante del malgoverno disciplinare delle truppe. L’esame da parte della Commissione di inchiesta ha comportato che le fucilazioni del 38° reggimento sono uno dei casi meglio documentati di esecuzioni sommarie.
Al riguardo, particolarmente significativa fu la deposizione resa davanti alla Commissione dal capitano Alfredo Caloro, aiutante di campo del generale Pistoni, comandante la Brigata, che riferì con precisione i fatti accaduti, in particolare la estrema severità del generale Guerrini, comandante della 7a Divisione,che fece fucilare subito i due soldati trovati nella baracca, benché uno di questi aveva sette figli, ed esonerò dal comando il generale Pistoni. In merito alla fucilazione dei cinque soldati avvenuta il 22 marzo, riferì che il generale Guerrini, comandante della 7a Divisione, aveva ordinato di estrarre a sorte prima 20 soldati e successivamente di fare tra di questi un secondo sorteggio di cinque soldati. Riferì inoltre che i componenti del plotone di esecuzione dovettero sparare ben sei volte contro i cinque sodati estratti a sorte, tanto erano commossi ed agitati.
Il 3 maggio il generale Giuseppe Della Noce, capo dell’Ufficio Giustizia, chiese al Comando della Zona di Gorizia una Relazione sule esecuzioni sommarie avvenute, che fu inviata il 7 maggio al VII Corpo d’Armata, comandato dal generale Carignani, che rispose il 9 maggio, giustificando le esecuzioni sommarie ordinate con la necessità di dare un esempio, “data la gravità dei fatti accaduti e sopra tutto data l’assoluta necessità che la disciplina fosse energicamente ristabilita”.
Quando il generale Tommasi esaminò questo caso ritenne che era stata commessa una gravissima violazione del Codice penale militare in merito al processo dell’8 aprile davanti al Tribunale straordinario perché, in base all’art. 487, non era possibile processare per lo stesso reato un militare già assolto, ed inoltre perché non si poteva convocare un Tribunale straordinario per giudicare un reato sul quale si era già pronunciato il Tribunale militare ordinario. Per questi motivi la sentenza con le tre condanne a morte e le altre pene detentive era illegittima.
La fucilazione di 5 militari del 264° Reggimento di fanteria della Brigata Gaeta per “sbandamento in faccia al nemico” il 30 agosto 1917
la Brigata Gaeta fu costituita il 17 febbraio 1917 ed inquadrata nel VI Corpo d’Armata, operando nel settore di Gorizia. Nell’agosto 1917 partecipò alla 11a “offensiva di Gorizia, nella zona di Grazigna, con ingenti perdite (15 ufficiali e 1.400 soldati).
Il 28 agosto due soldati del 264° reggimento si erano resi irreperibili la sera del 28 agosto.
Il 29 agosto, durante un combattimento, tre soldati di differenti compagnie dello stesso reggimento si erano allontanati dai propri reperti. I cinque soldati furono fermati dai carabinieri, nel corso di una operazione di ricerca di “sbandati”, nei pressi del cimiteri di Gorizia, il pomeriggio del 30 agosto e poi furono portati al reggimento, il cui comandante, il tenente colonnello Pietro Di Lieto Vollaro, li interrogò alla presenza di due ufficiali. Soldati ammisero di essersi allontanati dai propri reparti per motivi considerati “futili” dal comandante. Solo un soldato cercò di giustificare il suo allontanamento con la necessità di curare una ferita alla mano sinistra. Questa circostanza era vera, ma successivamente era scomparso.
I cinque soldati furono considerati colpevoli del reato di “sbandamento in faccia al nemico” e condannati a morte, mediante “giudizio sommario”, dal colonnello Di Lieto per dare un “efficace esempio per impedire altre diserzioni e sbandamenti”, applicando la Circolare n.9488 emanata il 16 agosto 1917 dal comando della II Armata. Pertanto, i cinque soldati furono prima degradati e poi fucilati alla schiena.
Il provvedimento fu approvato dai superiori comandi di Brigata, Divisione e Corpo d’Armata.
L’11 settembre 1917 il generale Della Noce, informato della esecuzione sommaria, inviò una lettera al generale Capello, comandante della II Armata, nella quale la riteneva illegittima perché c’era la “fragranza di reato” essendo trascorsi uno o due giorni dal fatto, che pertanto doveva essere giudicato da un Tribunale straordinario. Questo è stato uno dei pochissimi casi in cui il generale Della Noce espresse chiaramente la propria disapprovazione per una esecuzione sommaria. Pertanto, il generale Capello fu costretto a sconfessare l’operato del colonnello Di Lieto.
Nella sua Relazione il generale Tommasi ritenne illegittima l’esecuzione sommaria.
La fucilazione di 12 militari del 141° Reggimento di fanteria della Brigata Catanzaro per “sbandamento” il 27 maggio 1916
Il 27 maggio 1917, durante l’offensiva austriaca nota come “spedizione punitiva” (Strafexpedition), iniziata a metà maggio, e che portò gli austriaci a conquistare il 28 maggio la città di Asiago e tutto l’altopiano, il colonnello Attilio Thermes, comandante del 141° reggimento di fanteria della Brigata Catanzaro, ordinò la fucilazione di 12 militari per il reato di “sbandamento in faccia al nemico”. Erano otto soldati e graduati di truppa, scelti per “decimazione” (estratti a sorte in ragione di uno ogni dieci soldati) e tre sergenti ed un sottotenente, in quanto erano i più alti in grado del reparto incriminato. Infatti, il 26 maggio due battaglioni del 141° reggimento erano schierati sulla prima linea sul Monte Mosciagh mentre il resto del reggimento era attendato alle pendici del Monte. In seguito ad un forte attacco austriaco, i soldati della prima linea si ritirarono in modo disordinato con alcuni sottufficiali che gridavano di fuggire per sottrarsi alla cattura. Questa fuga disordinata gettò lo scompiglio nei due battaglioni e centinaia di soldati, soprattutto della quarta Compagnia, si nascosero nei boschi circostanti. Una parte degli sbandati fu radunata dagli ufficiali per contrattaccare, ma molti soldati tornarono al proprio reparto solo la mattina del giorno dopo.
Il colonnello Thermes, saputo il fatto, ordinò il 27 maggio 1916 la decimazione immediata di 12 militari. Altri sei graduati e sessanta soldati furono arrestati e rinviati a giudizio per il reato di “sbandamento in faccia al nemico”. Infatti Thermes ritenne di dover applicare l’Ordine del giorno inviato il 26 maggio dal Comandante Supremo Luigi Cadorna al generale Clemente Lequio, comandante delle truppe nel settore degli Altopiani di Asiago, attaccato dagli Austriaci, con il quale Cadorna scaricava la responsabilità della sconfitta al cedimento delle truppe che non avevano opposto “alcuna resistenza”. In particolare, Cadorna scrisse a Lequio di prendere le “più energiche ed estreme misure” e di far “fucilare immediatamente, se occorre, e senza alcun procedimento, i colpevoli di così enorme scandalo, a qualunque grado appartengano”. Thermes applicò alla lettera l’ordine di Cadorna, ricevuto dal generale Lequio.
Nella sua Relazione il generale Tommasi ritenne l’esecuzione sommaria “non adeguatamente documentata”, ma probabilmente era illegittima perché era avvenuta non in “fragranza di reato” , ma il giorno successivo.
Il processo agli oltre sessanta militari arrestati si svolse davanti al Tribunale militare del XIV Corpo d’Armata. L’avvocato militare (il Pubblico Ministero) fece il 16 giugno un rapporto nel quale giustificava le 12 esecuzioni sommarie ordinate da Thermes. Il processo si concluse il primo luglio con la condanna dei graduati a tre anni di reclusione militare e dei soldati a due anni di reclusione. Però, essendo sospesa per le esigenze belliche la esecuzione delle condanne fino a tre anni di reclusione (che si dovevano eseguire dopo la fine della guerra, se il condannato era sopravvissuto), tutti i militari ritornarono al reparto per continuare la guerra.
Il 22 giugno Thermes ricevette da Cadorna, in un Ordine del giorno indirizzato a tutti i reparti dell’Esercito, un encomio solenne ad personam per il “sacrosanto provvedimento disciplinare da lui preso“.
L’encomio fu duramente contestato dal colonnello dello Stato Maggiore Giulio Duhet, molto critico verso i provvedimenti presi da Cadorna, perché era stato concesso non per un glorioso fatto d’arme, ma per aver fatto fucilare i suoi soldati. Al riguardo, Duhet scrisse nel suo Diario critico di guerra (in due volumi, Edizioni Paravia, Torino 1922): “Tale encomio solenne…È il primo che il generale Cadorna ha creduto di elargire in un anno di guerra. Ora è possibile, che, in un anno di guerra, e di una guerra così sanguinosa, nessuna azione di più puro valore morale si sia verificata? È possibile che, in un anno di guerra, nessun atto abbia meritato di essere additato ad esempio all’Esercito, e si sia dovuto aspettare una circostanza estremamente dolorosa nelle sue cause e nei suoi effetti?”
Nel 1916 il colonnello Thermes ebbe la Medaglia d’Argento al Valore militare e la promozione a generale di brigata per meriti di guerra ed ottenne il comando della Brigata Catanzaro, ma nel 1917 lasciò la “zona di guerra” e andò a dirigere la Divisione militare territoriale di Roma.
La fucilazione di 14 militari del 206° reggimento di fanteria della Brigata Lambro per “sbandamento” il 25 maggio 1916
La Brigata Lambro (della 34 Divisione di Fanteria) fu costituita nell’aprile 1916 ed era dispiegata sull’Altopiano di Asiago.
Quando iniziò la “spedizione punitiva“ austriaca (Strafexpedition), iniziata a metà maggio 1916, molti militari della Brigata Lambro si sbandarono ed il 25 maggio 1916 un gruppo di 14 militari arrivò nella zona del Monte Interrotto, in Val d’Assa, che era il settore in cui era spiegata la Brigata Salerno, comandata dal generale Vittorio Fiorone, il quale li fece subito fucilare per il reato di “sbandamento in faccia al nemico”.
Si deve ricordare che durante l’attacco austriaco la Brigata Lambro fu distrutta, con un numero elevatissimo di “dispersi”. Ci furono infatti 14 morti, 27 feriti e 65 dispersi tra gli ufficiali e 132 morti, 508 feriti e 3.008 dispersi tra la truppa.Il generale Fiorone lasciò il comando della Brigata Salerno il 20 giugno 1916 per assumere un altro incarico. Il 27 aprile 1917 ottenne il comando della 62° Divisione di fanteria. Il 21 aprile 1917 il generale Guglielmo Pecori Giraldi, comandante della 1° Armata, si espresse a favore della sua promozione facendo riferimento proprio alla “padronanza di sé” dimostrata il 25 maggio 1916, quando non esitò ad ordinare “immediati atti sommari”, in riferimento alla fucilazione dei 14 militari sbandati.
Il 23 agosto 1919, il quotidiano socialista Avanti! pubblicò una lettera intitolata “Il tiro al piccione” nella quale si denunciava la fucilazione di 14 soldati, alcuni appartenenti al 206° reggimento della Brigata Lambro ed altri al 156° reggimento della Brigata Alessandria, i quali non furono nemmeno interrogati per accertare lo svolgimento dei fatti, ma furono subito mandati davanti al plotone di esecuzione, davanti al reparto schierato, in modo che la loro fucilazione fosse “di esempio” per evitare altri sbandamenti.
Nella sua Relazione il generale Tommasi ritenne l’esecuzione sommaria “non adeguatamente documentata”, e probabilmente era illegittima perché ordinata dal comandante di una Brigata diversa da quella di appartenenza dei soldati fucilati, i quali avrebbero dovuto essere giudicati dal Tribunale militare ordinario.
Giorgio Giannini
BIBLIOGRAFIA: Marco Pluviano- Irene Guerrini, Le esecuzioni sommarie nella Prima guerra mondiale, Gaspari Editore, Udine 2004