La vittoria dei laburisti nel Regno Unito ha entusiasmato le sinistre in Europa. Porterà davvero a qualche cambiamento significativo a livello nazionale o internazionale? Keir Starmer, il nuovo premier laburista, è un conservatore travestito da socialista progressista. In questo non è diverso da tutti i leader centristi che governano in quasi tutta Europa, non importa se provenienti dai partiti liberisti, popolari e conservatori o dai partiti ex-socialisti, ex-verdi (come in Germania) e persino ex-comunisti.

La buona notizia sta solo nel rinnovamento politico in un Paese – anzi in un governo – allo sbando, guidato da una classe dirigente fallimentare che ha governato per quindici anni ininterrottamente. Dire che ha governato è un eufemismo poiché oggi i governi sono governati da altri poteri piuttosto che governare. Sul fronte internazionale, Starmer ha già chiarito che non ci saranno cambiamenti. Di un ritorno nell’UE, nemmeno se ne parla. Ha espresso sostegno all’Ucraina senza menzionare la possibilità di negoziati. Ha affermato il diritto di Israele all’autodifesa senza prendere posizioni chiare su quanto stia avvenendo a Gaza e sui diritti dei palestinesi.

Sebbene Starmer si dichiari ateo, frequenta la sinagoga con la moglie, che proviene da una famiglia ebraica osservante che divide la sua residenza tra Londra e Tel Aviv. Israele può stare tranquillo, gli americani pure. Al massimo, ci si potrebbe aspettare uno spostamento verso più incisive politiche sociali e un miglioramento dell’assistenza sanitaria, oggi in condizioni disastrose.

Comunque, indipendentemente dalla volontà di Starmer di risistemare la politica sociale, il governo dovrà affrontare la “mission impossible” di riorganizzare un vecchio sistema di welfare e di trovare i finanziamenti per rilanciarlo. In concreto, in questi primi mesi di governo, sono state approvate ulteriori spese militari per ancora più armi in Ucraina e per gli interventi a sostegno di Israele.

Vale la pena notare che, nonostante abbia ottenuto una maggioranza parlamentare del 64%, Starmer ha ricevuto solo il 34% dei voti a causa del sistema elettorale vigente oltre Manica. A questo si aggiunga che solo il 60% degli aventi diritto si è preso la briga di votare, mentre il resto non ha risposto alla chiamata alle urne. In sostanza, solo un quinto dei cittadini ha votato per un partito che deterrà quasi due terzi della rappresentanza in Parlamento. Perché mai questa situazione non dovrebbe sollevare serie preoccupazioni sulla democrazia?

In questa situazione, Starmer non è interessato al sostegno popolare. Può controllare polizia, esercito e media senza che qualcuno possa ostacolarlo, ad eccezione del suo stesso partito. I Tories hanno ricevuto solo il 10% di voti in meno rispetto ai laburisti, ma deterranno uno sproporzionato (al ribasso) 18% dei seggi in Parlamento. Nigel Farage, il leader populista di Reform UK, ha ottenuto il 14% dei voti, ma sarà rappresentato da appena lo 0,6% dei seggi in Parlamento. I liberaldemocratici, fedeli alla tradizione, sono andati leggermente meglio, ottenendo il 12% dei voti e il 10% dei seggi.

Qualcuno potrebbe osservare che nel Regno Unito i collegi elettorali sono di modeste dimensioni e quindi si crea un rapporto diretto tra eletto ed elettori indipendentemente dal partito di appartenenza. L’osservazione sarebbe stata pertinente fino a qualche decennio fa, prima della grande concentrazione urbana e dello sviluppo della mobilità privata e pubblica di massa. Ma oggi la popolazione in larga parte vive a cavallo di più collegi e non ha un rapporto diretto con il territorio.

Il rapporto tra geografia e politica è cambiato. Pur con collegi di piccole dimensioni, il voto segue i messaggi provenienti dai grandi media e non si articola su scala locale attraverso le organizzazioni civiche. Pochi conoscono il membro del parlamento che eleggono (anche perché proprio non vanno a votare per uno sconosciuto).

Ancor più che in altre democrazie occidentali, la politica britannica rimane arroccata in una torre d’avorio sempre più fuori dalla portata dei cittadini. Di conseguenza, il popolo ha già mostrato la propria frustrazione con proteste di piazza, urlando alle sorde orecchie del Parlamento. Com’era facile prevedere, i cittadini sono quasi subito scesi in piazza. Partiti e parlamento stentano a controllare il popolo in U.K. come ovunque in quelle che ormai possiamo definire ex-democrazie.

Proliferano i tumulti e latitano i seri dibattiti parlamentari dove dovrebbero contrapporsi due visioni politiche coerenti, sia pure alternative. Nel Regno Unito, a distanza di pochi giorni, ci sono stati violente sommosse anti-immigrazione e subito dopo altre manifestazioni “anti-anti-immigrazione” e contro i massacri di Gaza. Ma non hanno portato a nulla se non allo sfogo diemozioni superficiali.

Jake Benford, della prestigiosa Bertelsmann Stiftung, saluta l’insediamento di “un governo laburista di centro-sinistra eccezionalmente potente”. Colpisce come alcuni autorevoli commentatori (autorevoli, ma di parte, se mai si possa essere autorevoli essendo di parte… Ma oggi va così…) apprezzino un’alterazione così accentuata della rappresentanza e non comprendano il pericolo per la democrazia. D’altra parte, l’autore inglese e la Fondazione tedesca (e internazionale) per cui lavora, pur dichiarandosi indipendenti, rappresentano un ben consolidato potere che non ha certo radici popolari e la cui indipendenza culturale è stata più volte messa in dubbio.

Benford esalta il sistema democratico nonostante i dati riportati e i (conseguenti) tumulti e contro-manifestazioni che hanno percorso il Regno Unito subito dopo le elezioni. Soprattutto colpisce l’idea di apprezzare un governo “eccezionalmente potente” (purché sia della sua parte politica). Ma “un governo eccezionalmente potente” rassomiglia a un regime specialmente se è sostenuto da una maggioranza parlamentare sproporzionata rispetto ai voti espressi. E se questo governo è eteroguidato, da poteri estranei alle istituzioni.

Il ricercatore della Fondazione Bettelsmann si accorge di questa contraddizione e ammette che “le idee del Labour non hanno catturato l’immaginazione dell’elettorato e il risultato è in gran parte il riflesso della rabbia degli elettori britannici nei confronti del partito conservatore.” Come potrebbe essere diversamente se solo un cittadino britannico su cinque ha espresso la propria preferenza per il Labour il cui programma nella sostanza non sarà diverso da quello dei Tories?

Corrado Poli

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Corrado Poli, docente di geografia politica e urbana, editorialista e saggista

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