La città di Giaveno ha conferito la cittadinanza onoraria al nostro fondatore Bruno Segre. In quell’occasione, l’avvocato Segre ha tenuto una Lectio Magistralis che è anche una sua breve biografia sullo sfondo dell’Italia fascista e post bellica che ha visto Segre tra i protagonisti della resistenza, prima, e delle principali battaglie per i diritti civili, poi.
La lectio Magistralis
Desidero anzitutto ringraziare il Sindaco, gli Assessori, i Consiglieri Comunali e tutti i cittadini di Giaveno per avermi conferito la cittadinanza onoraria.
Sono fiero di questo apprezzamento da parte della città di Giaveno, la cui storia risale ai tempi del passaggio di Annibale all’interno del territorio per combattere i romani.
Molti ricordi lontani, legati alla Val Sangone, affiorano alla mia memoria. Negli anni Trenta la mia famiglia trascorreva le vacanze estive a Coazze, allora importante località turistica affollata da personalità torinesi. Il mitico trenino ci conduceva, sbuffando, da Torino a Giaveno, coronata di monti, doviziosa di cascine e di pascoli, solcata da torrenti in un’ampia conca sempre più estesa con nuovi edifici.
Alle emozioni della mia giovinezza d’anteguerra, seguì nel 1975 l’acquisto di uno chalet nell’area dell’Alpe Colombino. Vi trascorsi molte ore nel silenzio e nello studio delle vertenze professionali. Era una località deliziosa, immersa nella vegetazione fitta di boschi, di larici, betulle e castagneti, proiettata nella montagna dell’Aquila e nella adiacente Valle di Susa. Purtroppo tutto finì nel 2004 per un incendio che distrusse il mio chalet.
Ma, colmo di nostalgia e di affetti, ritorno spesso a Giaveno girando per le strade antiche, spingendomi alla pesca nel Sangone e nel laghetto artificiale in periferia.
Amo Giaveno per le sue attrattive turistiche, per il suo passato nella Resistenza, per le sue iniziative culturali e gastronomiche. Risulta dunque un privilegio diventarne cittadino e ad esso devoto.
Purtroppo alla serenità dell’ambiente naturale si contrappongono tempi difficili nel Paese Italia. Violenze, proteste collettive, pandemia con troppe vittime, propaganda fascista. Gli analfabeti della democrazia esaltano la memoria del Duce e dimenticano le sue responsabilità. Infatti, dopo la cosiddetta marcia su Roma le squadracce fasciste aggredirono e misero a soqquadro sedi di Partito e bloccarono i giornali ricorrendo per punire i dissenzienti al pugnale e all’olio di ricino.
Con la legge 25 novembre 1926 furono soppresse la libertà di stampa, sciolti tutti i Partiti tranne il PNF, introdotta la pena di morte, riformata l’Amministrazione locale, sostituiti i Sindacati con le Corporazioni, decaduti i Deputati, istituito il Tribunale Speciale formato da ufficiali della Milizia e delle Forze Armate, organizzati nelle isole il confino di polizia, fondato un nuovo sistema elettorale “ad usum Delphini”, creato il Gran Consiglio del fascismo, ecc.
Al regime aderirono la borghesia agraria, i lavoratori della terra che aspiravano alle proprietà, gli industriali in quanto avversi agli scioperi che vennero proibiti, i ceti medi che si consideravano i legittimi rappresentanti della nuova Italia dopo scioperi generali, occupazione delle fabbriche, proteste autorevoli (famoso il “manifesto degli intellettuali antifascisti” scritto da Benedetto Croce e firmato da centinaia di personaggi).
L’opposizione fu stroncata ovunque, isolata nell’attività propagandistica dei Partiti rifugiatisi in Francia e nei gruppi clandestini in Svizzera, Belgio e in molti Paesi extra europei. All’interno, esclusi pochi irriducibili finiti in carcere o al confino, l’unica opposizione diffusissima furono le barzellette antifasciste (ad esempio quelle di un incontro tra Mussolini e D’Annunzio, che così si salutarono “Salve fante alato, salve lesto fante…”).
Il Duce si illuse di vincere sempre, aggredendo l’Etiopia, l’Albania, la Grecia, la Spagna repubblicana, la Francia, l’Inghilterra, l’Unione Sovietica, alleandosi all’infido camerata tedesco, poi tradito con l’armistizio segreto dell’8 settembre 1943 e con la dichiarazione di guerra alla Germania il 13 ottobre 1943.
Il fascismo fu una dittatura totalitaria ed espansionista a cui ora si collegano idealmente piccoli gruppi di nostalgici associati in “Forza Nuova”, “Casa Pound” ecc. che indossano la camicia nera, fanno il saluto romano, cantano “Giovinezza” e “Faccetta nera”, esibiscono distintivi con la testa di morte, consumano il rancio e vanno in pellegrinaggio a Predappio per rendere omaggio alla tomba di Mussolini. Parafrasando la quartina dedicata al Ministro delle Finanze, Quintino Sella: “Attenzione, o pellegrino a quest’urna non ti accosta, se si sveglia l’inquilino paghi subito l’imposta” fu concepita quest’altra: “Attenzione, o pellegrino ben vicino non ti accosta a questo avello, se si sveglia l’inquilino usa l’olio e il manganello”.
Nel 1932 in una lunga intervista concessa al giornalista tedesco Emil Ludwig (che poi la pubblicò nel libro “Colloqui con Mussolini” edito da Mondadori) il Duce elogiò gli ebrei che avevano dato all’Italia capi di governo, ministri, scienziati, scrittori. Nel 1938, per allinearsi all’alleato nazista, inaugurò un antisemitismo contro i 48.000 ebrei italiani, in talune parti più rigoroso di quello tedesco. Tra l’indifferenza del popolo si susseguirono dolorosi eventi: il clamoroso suicidio dell’editore Formiggini e di molte altre vittime, l’esilio degli ebrei ricchi in Paesi lontani, l’espulsione degli ebrei dalle scuole, dalle cariche pubbliche, dagli impieghi e dalle professioni. Cominciò il triste spettacolo di inutili conversioni religiose, il mercato dei beni immobiliari e delle aziende, la campagna diffamatoria della rivista “La difesa della razza” nella cui redazione lavorava Giorgio Almirante, futuro fondatore del M.S.I. (che significava Movimento Sociale Italiano ed anche Mussolini Sei Immortale). Ben pochi gli oppositori. Ricordo un sonetto satirico di Trilussa, intitolato “L’affare della razza” (dedicato ai perseguitati che cambiavano il proprio cognome), un mio saggio sull’inesistenza di una razza italiana pubblicato dalla rivista “L’Igiene e la Vita” diretta dall’ex-deputato socialista, Giulio Casalini, subito soppressa dal regime e qualche altro isolato dissenso.
La legislazione antisemita risultava complicata e talora paradossale. Io stesso ne fui una singolare vittima: da mio padre ebreo e mia madre cattolica, non praticanti, nacquero tre figli, di cui i due minori furono iscritti alla Comunità ebraica e ne frequentarono le scuole ed uno, cioè io stesso, fieramente privo di religione. Ebbene mia madre ottenne da un sacerdote compiacente due certificati di antico battesimo, per cui i miei due fratelli vennero classificati di razza ariana, mentre io, mai iscritto a Comunità, fui dichiarato ebreo. Dunque dagli stessi genitori sarebbero nati due figli ariani e uno ebreo.
Tale qualifica, se mi permise di concludere il corso di studi universitari (mentre i numerosi studenti tedeschi che frequentavano la Facoltà di medicina furono espulsi immediatamente), mi impedì di iscrivermi per una seconda laurea.
Il giorno dopo la dichiarazione di guerra a Francia e Gran Bretagna (10 giugno 1940) mio padre fu inviato al confino, in un paesino dell’Abruzzo, ove furono riuniti molti personaggi torinesi da Donato Bachi a Natalia Ginzburg. Io poi in agosto raggiunsi mio padre al confino di Rocca di Mezzo (tra Avezzano e l’Aquila).
A Torino ripresi il lavoro giornalistico retribuito pubblicando novelle ed articoli firmando con lo pseudonimo Sicor. Spesso aggiungevo, con il gessetto sui muri, una “O” al “viva il re”, che così diventava “reo”, in realtà traditore perché all’atto di ascendere al trono, nel discorso della Corona in Parlamento, aveva giurato di rispettare lo Statuto concesso da re Carlo Alberto nel marzo 1848. Il re “sciaboletta” e la bella regina venivano satireggiati dal popolo, l’uno per la bassa statura e l’altra per l’origine nel Montenegro, con i nomi di due battaglie del Risorgimento “Curtatone” e “Montanara”. Inoltre il re aveva conferito al Duce il supremo Ordine Cavalleresco dei Santi Maurizio e Lazzaro e poi era andato a Predappio per un omaggio alla casa dov’era nato Mussolini.
Finii in carcere nel settembre 1942 per disfattismo politico e vi rimasi circa 4 mesi durante il più gelido inverno del secolo, che bloccò l’avanzata dei carri armati tedeschi in Russia. La Commissione prefettizia si limitò ad infliggermi l’ammonizione nella seduta del 1 maggio, allorché io infilai una margherita nell’asola della giacca. Qualcuno capì ma tacque.
Assistetti, il 10 settembre 1943, mentre mi trovavo a Porta Nuova, ad una sfilata di bersaglieri condotti dalle SS alla stazione per essere deportati nei lager e pure ad un drammatico episodio allorché alcuni giovani sconsiderati lanciarono da un furgone pietre contro i soldati tedeschi che con una sventagliata di mitra li uccisero.
Poi mi trasferii nel Cuneese, ove presso Busca era sfollata la mia famiglia, e qui assistetti allo scioglimento della IV Armata del nostro esercito, che dalla Francia si riversò nella pianura cuneese. Drammatico lo spettacolo di cavalli liberi in corsa per le vie, di barili di olio, di migliaia di scatolette di carne, di tutte le armi in dotazione da parte di militari in fuga, che cercavano indumenti civili per sottrarsi alla cattura e alla deportazione.
I soldati in fuga erano seguiti da centinaia di ebrei stranieri, in precedenza da loro protetti nel territorio semilibero della Francia. Sfiniti dalle traversie si consegnarono nella caserma di Borgo San Dalmazzo e furono deportati nel dicembre-gennaio 1944 al campo di sterminio di Auschwitz.
Il confuso scioglimento dell’intera IV Armata, quando i tedeschi non erano ancora arrivati, fu uno spettacolo deprimente. Pensai che l’esercito era disonorato e ormai superfluo.
A Torino nel settembre 1944, mentre mi trovavo nell’ufficio paterno (un’agenzia di assicurazioni negli ammezzati di Piazza Solferino, 3) fui visitato da due energumeni della Polizia fascista (UPI = Ufficio Politico Investigativo della RSI) per una perquisizione.
Avevo falsi documenti di identità, ma venni smascherato e mentre fuggivo fui oggetto di una sparatoria. Dei tre colpi di pistola, uno mi colpì ma venne bloccato dal mio portasigarette di metallo. Caddi e il gorilla fascista, sorpreso che fossi vivo, esclamò “Accendi un cero alla Madonna” cui risposi che proprio non potevo farlo.
Fui imprigionato nella caserma-carcere di Via Asti. Una singolare reclusione perché nell’enorme stanzone adibito a dormitorio una fila di brande, addossate al muro, accoglieva i presunti antifascisti ed un’altra fila contrapposta ospitava i fascisti in uniforme accusati di reati comuni. Pertanto durante le giornate gli uni e gli altri fraternizzavano conversando, giocando a carte, fumando. Le mie esperienze in tale prigione (ove in una cella era segregato un prete protettore di ebrei mentre nello stanzone passeggiava il cappellano delle Brigate Nere, don De Amicis, che ci invitava ad entrare nelle forze fasciste) le ho descritte nel libro “Quelli di Via Asti”, redatto nel 1946, ma pubblicato nel 2013.
Dopo poche settimane il denaro che mia sorella consegnò al doppiogiochista Avv. Dal Fiume per corrompere i miei persecutori, mi permise di venire scarcerato, previa una breve sosta nelle Carceri Giudiziarie. Qui incontrai mio cugino Aldo Momigliano, dimenticato dalla Giustizia. Pochi giorni dopo venne catturato suo fratello Italo e poi, mentre si trovava al ristorante, chiamato al telefono a voce alta dalla cameriera, il fratello Dante. I due fratelli vennero imprigionati nel “braccio tedesco” e furono raggiunti dal fratello Aldo che incautamente aveva loro inviato degli alimenti. Così i tre fratelli Momigliano finirono a Flossemburg ove perirono nel marzo 1945. L’accanimento verso i Momigliano era dovuto alla ricerca di Franco Momigliano, attivissimo di G.L. nella Resistenza.
Nel gennaio 1945 entrai nella 1° Divisione Alpina “Giustizia e Libertà” a Pradleves e combattei per la liberazione di Caraglio e di Cuneo.
Dopo la Liberazione fui assunto nella redazione del quotidiano liberale L’OPINIONE, diretto da Franco Antonicelli e da Giulio De Benedetti, insigne Maestro di giornalismo.
Alla vigilia del Referendum istituzionale del 2 giugno 1946 incontrai in Piazza Castello il “re di maggio” Umberto II di Savoia, che circolava distribuendo il titolo di cavaliere del Regno per ottenere voti. Gli chiesi a bruciapelo “Lei voterà per la Repubblica o per la Monarchia?”. Mi guardò stupefatto e senza rispondermi si allontanò velocemente.
Quando L’Opinione cessò la pubblicazione sostituita da “La Nuova Stampa” entrai nella redazione del quotidiano socialdemocratico Mondo Nuovo diretto dall’ON. Bonfantini. Quando cessò le pubblicazioni, sostenni gli esami da procuratore legale e cominciai il praticantato. Il 31 agosto 1949 difesi dinnanzi al Tribunale Militare di Torino il primo obiettore di coscienza Pietro Pinna e dopo di lui centinaia di o.d.c. negli otto Tribunali Militari sino al riconoscimento legale dall’o.d.c. nel 1972. Fondai a Torino la Lega Italiana Divorzi (LID) collaborando con l’on. Loris Fortuna per la legge che introduceva il divorzio e guidai la battaglia contro il referendum abrogativo indetto dalla D.C. e dal M.S.I.
Dopo molti anni e molte vicende (per un quinquennio fui capogruppo del PSI al Consiglio Comunale di Torino, fondai e diressi il periodico politico-culturale L’Incontro per 70 anni sostenitore dei diritti civili, della pace e dell’antirazzismo, tenni la presidenza dell’associazione nazionale del Libero Pensiero “Giordano Bruno” e la direzione dell’omonima rivista, fui presidente per 40 anni della Federazione delle Società per la cremazione cui dedicai la rivista L’ARA, consigliere degli Ospedali Psichiatrici di Torino, Collegno, Grugliasco fondando la rivista “Nuovi Orizzonti” cui collaborarono i malati di mente), svolsi per 50 anni la professione di avvocato.
In conclusione, ricordando che Sandro Pertini scrisse: “con la libertà tutto è possibile, senza libertà tutto è perduto” dobbiamo combattere contro ogni tentativo reazionario diretto alla riesumazione del fascismo, come è avvenuto recentemente a Roma nel saccheggio della CGIL e nell’aggressione all’Ospedale Umberto I da parte di analfabeti della democrazia. Bertold Brecht nel testo teatrale “La resistibile ascesa di Arturo Ui” ammoniva “il grembo che partorì il mostro nazista è ancora fecondo. Uomini vigilate!” Lo strumento adatto è la Costituzione della Repubblica nata dalla Resistenza che tutela democrazia e diritti civili. I giovani debbono studiare gli eventi della Storia perché la conoscenza è un bene, mentre l’ignoranza è un male. Dunque dobbiamo essere liberi di agire, dobbiamo agire per essere liberi combattendo la battaglia a favore dell’eterna libertà e della necessaria dignità.
Bruno Segre