Il Salone del Mobile di Milano si è chiuso con un grande successo di critica e di pubblico.
Abbiamo volutamente lasciato passare la sbornia di entusiasmi sulla riuscita di tale evento per ragionare poi “a freddo” su alcuni elementi che emergono dall’esperienza milanese.
Diciamo innanzitutto che è stata un’edizione strepitosa, nonostante il maltempo. I numeri ufficiali non ci sono ancora, ma si dovrebbe aver raggiunto la soglia di 400.000 visitatori, di cui più di 2/3 stranieri, con un incremento di circa il 20% sull’edizione omogenea di due anni fa.
La presenza straniera è stata caratterizzata da un grande aumento di visitatori cinesi, che hanno superato in termini numerici i russi ed i tedeschi, che avevano primeggiato nell’ultima edizione di analogo contenuto (arredi, illuminazione e uffici).
Possiamo dunque dire che il Salone di Milano è diventato l’evento mondiale di questo settore, dove si possono trovare i migliori marchi internazionali, con le migliori eccellenze tra architetti e designer.
Sono passati 19 anni da quando, agli inizi del 2000, un gruppo di industriali italiani decise di avviare un progetto per la realizzazione di un salone in grado di competere con quello di Colonia, allora leader incontrastato di questa industria.
La scommessa sembrava molto ardita, anche se coraggiosa, ma ad alto rischio di velleitarietà.
Pochi, in un paese di Tafazzi, avrebbero scommesso un euro sulla riuscita dell’iniziativa. Ebbene, dopo quasi un ventennio, i promotori hanno saputo smentire i pessimisti, dando vita ad un salone che costituisce ormai una delle più brillanti eccellenze del nostro Paese all’estero.
In questo capolavoro di marketing, ma anche di lavoro di squadra e di sinergie tra gli addetti ai lavori imprenditoriali e professionali, non ci dobbiamo dimenticare che anche le imprese di famiglia, le realtà artigiane di dimensioni più ridotte hanno contribuito ad esaltare l’eccellenza italiana nel mercato dell’arredo e del mobile di design. L’intuizione dei promotori di realizzare una vetrina di prestigio della nostra industria ha colto nel segno. Ed è stata proprio la vivacità, l’innovazione, il gusto di molte piccole e medie aziende di questo mercato a far nascere e lievitare il brand del Salone del Mobile a livello internazionale.
Il nostro modello delle PMI si è dato e ci ha dato una grande lezione di come, facendo sistema e superando quindi le miopie campanilistiche e concorrenziali, si possa “vendere nel mondo” un’immagine virtuosa e affascinante del made in Italy. Questo esempio riuscito ci deve stimolare a replicarlo. Bisogna sollecitare anche la politica a rimettere al centro delle nostre priorità nazionali l’impresa e tutto quel mondo di imprese che costituiscono la spina dorsale del nostro Paese e che ci hanno permesso di sopravvivere anche in questi ultimi 20 anni di stagnazione e di non crescita.
La prima considerazione da trarre dall’esperienza milanese è quella per cui la politica deve rioccuparsi delle imprese e, invece di vessarle con misure penalizzanti e con una burocrazia infinita, deve aiutarle, supportandole nella loro crescita e nella loro internazionalizzazione.
Dario Di Vico, su Il Corriere della Sera, ha sottolineato i pregi e le peculiarità del modello di business del Salone del Mobile milanese, incentrato sul binomio creatività-innovazione: “se infatti le migliori 20 o 30 aziende ogni anno non investissero una quota significativa del loro fatturato (circa il 10%) per presentare al Salone tanti nuovi prodotti basati su soluzioni e materiali sperimentali, il made in Italy non potrebbe mai pensare di perpetuare la sua egemonia”.
È stupefacente la capacità delle nostre imprese operanti in questo settore di sfornare “ogni anno prodotti di assoluta qualità e di fascia alta – ha chiosato Di Vico – per poter così incassare sul mercato un margine operativo elevato e, soprattutto, tale da consentire robusti re-investimenti in ricerca e sviluppo”.
Questa è la forza di un modello di business che non può per ora giovarsi né di una finanza amica, né di una politica industriale mirata.
Rappresenta, a nostro avviso, l’immagine dell’Italia migliore, di quella parte del Paese che ha capito che fare sistema costituisce un plus. Che sa di conseguenza lavorare gomito a gomito con i competitor dei brand più conosciuti, ingaggiando i designer più autorevoli e le migliori eccellenze tra gli artigiani brianzoli, veneti e marchigiani.
L’ente organizzatore del Salone e le istituzioni pubbliche milanesi ci hanno messo il resto. Hanno oliato una macchina di comunicazione di valore assoluto che può contare su stakeholder che sanno superare le divisioni politiche e culturali, lavorando insieme e consolidando quello che Di Vico ha definito correttamente “un solido retroterra di valori condivisi con la crescente capacità di attrarre i migliori talenti nazionali ed internazionali”.
Chiudiamo queste brevi riflessioni sul successo del Salone del Mobile con una considerazione improntata all’ottimismo: in un contesto macroeconomico disastroso, con una stabilità politica a dir poco precaria, il settore, genericamente definito dell’arredamento, ha dato a tutti una scossa, una luce di speranza. Ha fornito, ancora una volta, la sensazione provata che l’Italia avrebbe tutte le risorse imprenditoriali e professionali e tutta la capacità per rilanciarsi, attraverso progettualità di sistema rivolte al mercato mondiale e basate sulla valorizzazione delle nostre eccellenze e creatività uniche ed ammirate in tutto il mondo.
Insomma, il modello Salone di Milano deve diventare un benchmark da replicare per ridarci speranza, fiducia e risultati economici concreti per il nostro benessere prospettico.
Riccardo Rossotto