La strada sinuosa verso la Val di Sole merita qualche sosta per ammirare a destra il massiccio della Presanella. Anche a occhio nudo si può cercare, ai margini della morena, il Rifugio Denza. A sinistra, su una curva, Forte Strino – recentemente ristrutturato – con un piccolo Museo. Si arriva in breve a Vermiglio ma anziché proseguire sulla strada principale saliamo verso la piazza, a sinistra. Troviamo il Monumento ai Caduti, una balconata sulla Valle. Ha una particolarità. Chiunque abbia esaminato con cura i Monumenti ai Caduti che si trovano in ogni paese si sarà accorto che i caduti della Prima Guerra Mondiale sono più o meno il doppio di quelli della Seconda. E’ così anche in Germania e Francia. Ma a Vermiglio c’è qualcosa di diverso. Si scorrono i nomi e molti sono nomi di donna. Si guardano le date di nascita e morte: molti anziani e molti bambini. Bombardamento? No. Rappresaglia? No. Morti di fame. Morti di malattia. Sul posto o dopo la deportazione a Mitterndorf avvenuta nell’agosto del 1915 dopo i primi mesi di Guerra sul nostro fronte.
La “Guera Granda” aveva visto gli uomini abili richiamati e spediti per lo più in Galizia nell’estate del 1914. Poveri paesi di povera economia di montagna, prima privati delle braccia più forti e poi svuotati. Vecchi, donne e bambini sparsi nei “villaggi di legno”. Quel poco che c’era è stato utilizzato, depredato, distrutto dalla Guerra e dalla presenza di migliaia di soldati. Nelle zone non sfollate il destino non è stato meno duro. L’esercito aveva bisogno di tutto. Nulla sfuggiva alle requisizioni. Poveri raccolti di montagna, magro bestiame. Selvaggina e ungulati nei boschi. Anche suppellettili. Anche pentole. Anche i paioli. Raccontano in quei paesi che si cercava di nascondere i paioli sotterrandoli.
A poche centinaia di metri dalla piazzetta con il Monumento si trova il Museo della Grande Guerra, ideato e fondato da Emilio Serra per il suo “Paese martire”. Museo piccolo ma ricchissimo. Ricchissimo e molto ben tenuto. Ben tenuto e documentatissimo. Numerose le iniziative in calendario per appassionati, famiglie e scuole, itinerari per tutti i gusti, per tutte le possibilità e … per tutte le gambe.
Scendiamo e la strada si fa più dolce, costeggia il torrente Noce oggi paradiso del rafting. Se si viaggia dal tramonto all’alba raccomando velocità moderata e occhi bene aperti. Raccontano di maestosi cervi che scendono da queste bellissime foreste (di qui Vaia non è passata) e attraversano la strada per i pascoli più dolci, prossimi alle sponde. Deviazione a sinistra: Deggiano. Nella piazzetta del paese, di fronte alla chiesa con l’immancabile piccolo, ordinato e fiorito cimitero una grande casa. Al tempo della Guerra era la casa di Domenico de Melchiori della Zuanna. Famiglia con un passato di nobiltà centenaria conquistata dagli avi sui campi di battaglia. La generazione che, ormai matura, vide la Grande Guerra, era di vivi e consolidati sentimenti italiani. Domenico aveva tre fratelli e una sorella. Della sorella non so nulla. Del fratello Giovanni so che non si è mai sposato e che era un abile cacciatore. Ho sentito da una sua nipote (Giuseppina, detta Tata dai pronipoti) racconti sulle regole fondamentali per la caccia all’orso. “Se ti insegue corri sempre in discesa perché così l’orso si sbilancia”. “In salita l’orso ti prende subito”. “Quando l’orso si alza, vagli sotto, abbraccialo e colpiscilo col “cortel”. Degli altri due fratelli, Giuseppe e Bortolo, so che sono stati deportati a Katzenau, cioè, detto in breve, il campo di concentramento per gli oppositori politici dell’Impero, vicino a Linz. Sono tornati qualche anno dopo la guerra in due cassettine di legno.
Torniamo a Domenico. Nato nel 1840, frequenta la facoltà di Ingegneria a Padova e Innsbruk. Nel piano di studi anche esami di filosofia (e la filosofia agli ingegneri certo che serve). Ma deve essere stato folgorato da una “cotta” culturale e ideale per il sogno dell’Unità d’Italia. Infatti va a laurearsi in Ingegneria a Bologna, nel neonato Regno d’Italia, con tanto di diploma “nel nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele II”. Ed era il 1866. L’anno della vittoria a metà, e ci era ancora andata bene…(quando vinciamo sembra che la vittoria sia o a metà o mutilata…). L’anno in cui Garibaldi vince a Bezzecca, oltrepassa Riva del Garda e quando è li li per passare il Passo del Ballino e scendere in un paio di giornate a Trento viene fermato e obbedisce. Laurearsi proprio in quell’anno, proprio a Bologna, proprio lui, nobile del Regno Austroungarico… che idea. E cosa deve essere stato per lui avere avuto 19 anni nel baleno della Repubblica Romana e della sua straordinaria Costituzione durata un giorno. Fatto sta che l’Ing. Domenico se ne torna a casa col diploma di Re Vittorio in tasca, ma non se ne può fare nulla. A quel tempo non esisteva certo l’equiparazione dei titoli. L’Italia con i confini di oggi era un sogno, l’Europa una fantasia. Si sposa e mette al mondo cinque figli. Per i due maschi, nomi che sono un programma: uno Dario e l’altro Ciro. Poi tre femmine, Giuseppina, Malvina e Anna detta Annetta. Ma arriva il 1914, Dario e Ciro richiamati: “sen coscriti” han detto a Annetta che nel racconto ai nipoti aggiungeva struggente “e li ha mandadi en Galizia”. Eccola Annetta giovane in una foto: bella di una bellezza austera e un po’ enigmatica. Un che di magnetico che può turbare. Che avrà turbato. La ricordano anche da anziana con passo leggero e portamento da regina. Nel frattempo l’Italia entra in guerra e Deggiano è sulla strada per il confine del Tonale. La bella casa di Domenico viene occupata da Ufficiali Austriaci con i loro attendenti. Così lui, con la sua “cotta” giovanile e mai sopita per l’Italia, gli austriaci se li trova in casa. Ormai 75 enne. Loro sanno chi è. Non viene deportato come i suoi fratelli perché troppo anziano e malato. 75 anni a quei tempi. Non vedrà la fine della guerra. Non vedrà Dario e Ciro tornare vivi dalla guerra. Non sentirà i loro racconti sui Galiziani (“bona zent, ma poreti poreti poreti”). Il 24 ottobre del 1917 i tedeschi sfondano a Caporetto, gli austroungarici dilagano nella pianura. Vedono a occhio nudo il campanile di San Marco. Vengono arginati sul Piave. Per l’Italia un disastro. Un dramma. A casa dell’Ing. Domenico, possiamo immaginare la notizia che arriva e gli ufficiali che festeggiano. Sembra fatta. Così il 30 ottobre Domenico si spegne a 77 anni. 77 anni di allora. Possiamo immaginare di crepacuore. Su un santino per il decennio dalla morte quello che era stato l’epitaffio: “mancò senza veder l’italico trionfo”.
Claudio Zucchellini
P.S. Dario (ricordato come un omone con lo sguardo severo ma la battuta sempre pronta) ha raccontato ai suoi figli di aver sempre sparato per aria e mai ad altezza d’uomo. Ciò nonostante – sorridiamo noi – il suo Reggimento era stato insignito di una medaglia. Raccontava recentemente una figlia che lui quella medaglia l’aveva appesa alla coda di un cane randagio.