La Cina è un Impero o vuole ritornare a esserlo? Cercherò di rispondere a questo quesito muovendo dalla convinzione che, per non essere di parte, ogni riflessione sulla Cina deve tenersi fuori dalla contrapposizione che la vede o come un gigante dai piedi d’argilla o come una potenza che vuole sostituire gli Stati Uniti nel ruolo di egemonia mondiale.

Ciò premesso, la Cina è stata un impero sotto le dinastie succedutesi tra quella Xia e quella Qing, compresa quella di origine mongola di Kublai Khan, della quale Marco Polo parla nel Milione. Che quella Cina avesse una visione egemonica lo dice il suo stesso nome, Zhōngguó, che significa anche Terra di Mezzo, cioè centro fisico del mondo, circondato da terre abitate da barbari. Fu proprio per difendere il territorio dalle continue invasioni dei popoli nomadi, in particolare dai temutissimi Unni, che lo spietato imperatore Qín Shǐ Huáng, lo stesso a cui si deve la costruzione dell’Esercito di terracotta, decise di edificare il Changcheng, il muro lungo, oggi conosciuto come Grande Muraglia Cinese, dichiarata patrimonio dell’umanità.

L’era imperiale si concluse ufficialmente il 10 ottobre 1911 con la sollevazione del Kuomintang, il Partito rivoluzionario cinese guidato da Sun Yat-sen, che propugnava la caduta della dinastia Qing, al potere dal 1644, e la nascita di una Repubblica democratica.

La verità è che l’impero si era di fatto indebolito già da tempo sotto le sferzate della corruzione, della decadenza e dell’oppressione straniera. Punto acuto di questa decadenza fu l’umiliazione delle Guerre dell’oppio, combattute a metà dell’Ottocento e perse contro la Gran Bretagna per il rifiuto di importare oppio proveniente dall’India britannica. La fase bellica si concluse con i “trattati ineguali” di Nanchino e Tiensin, che imponevano alla Cina l’apertura di nuovi porti al commercio, la cessione di Hong Kong al Regno Unito, esenzioni doganali, libertà di accesso alla rete fluviale cinese e la “clausola della nazione più favorita”, estesa anche a Francia, Stati Uniti e Russia. Quella umiliazione è ancora viva nella cultura cinese e alimenta un sotterraneo desiderio di rivincita che comprende anche la riconquista di Taiwan.

La Cina di oggi è anch’essa il Paese di Confucio, ma è anche il luogo dell’incontro fra un’antichissima civiltà e le nuove idee importate dall’Occidente, produttrici di contraddizioni che non vengono rifiutate… Così come in passato fu accettata la contrapposizione tra Lao-tzu, fondatore del taoismo, e Confucio. La loro antitesi ha continuato ad arricchire la cultura cinese, generazione dopo generazione, perché ha saputo fondere l’impegno civile del confucianesimo con la spiritualità del taoismo.

Al di là di questa continuità, l’odierna Cina non ha nulla a che vedere con quella imperiale, sono due entità nettamente diverse. La Cina comunista fa di tutto per non evocare ambizioni imperiali, del resto non potrebbe essere diversamente dal momento che il maoismo è stato nemico giurato dell’imperialismo. Negli anni di Mao, la Cina ha combattuto l’imperialismo in Africa, sostenendo il Frelimo e l’MPLA – i Movimenti per la Liberazione del Mozambico e dell’Angola – nonché il Fronte Patriottico dello Zimbabwe e il movimento antiapartheid in Sudafrica. Tale politica è proseguita negli ultimi trent’anni con relazioni sempre più strette con i paesi africani, attraverso programmi di assistenza economica, costruzione di infrastrutture e cooperazione in diversi settori. Ciò ha contribuito a rafforzare i legami tra la Cina comunista e diverse nazioni africane.

Non si può escludere che i grandi investimenti in Africa siano stati effettuati soprattutto per interessi geopolitici, ma con onestà intellettuale va rilevato che essi sono stati orientati al finanziamento di progetti infrastrutturali, non alla costruzione di caserme o a riempire di armi gli arsenali. I dati rilasciati dal ministero degli Esteri cinese nel novembre 2021 rivelano che la Cina ha costruito in Africa più di 10.000 chilometri di ferrovie e autostrade, quasi 100 porti e 1000 ponti, più di 80 centrali elettriche, oltre 130 strutture mediche, 45 stadi e 170 scuole. Tuttavia, a questo sostegno in campo civile si accompagna anche una cooperazione in materia di sicurezza e difesa, grazie alla quale quasi il 70 per cento dei 54 Paesi del continente africano possiede veicoli militari corazzati cinesi e quasi il 20% di tutti i veicoli militari in Africa sono importati dalla Cina.

La Cina di oggi è certamente diversa da quella di Mao e Deng Xiaoping: mentre quella dei predecessori si ispirava alla massima “Nascondi la tua forza, e aspetta il tuo tempo“, la Cina di Xi Jinping non vuole più nascondersi, è forte e vuole che si sappia, per ottenere il rispetto internazionale che per oltre un secolo le è stato negato. Forse non è nemmeno giusto continuare a definirla comunista. La Cina è ufficialmente uno Stato socialista a partito unico, in realtà è un sistema economico che combina elementi di socialismo e capitalismo, cercando di bilanciare la proprietà privata e il mercato libero con la regolamentazione statale e la proprietà pubblica, un ibrido che è giusto definire socialismo di mercato ed esiste da oltre quarant’anni. Infatti, già nel 1982 Deng Xiaoping parlava di “socialismo con caratteristiche cinesi” quando dette il via alle prime Zes, Zone economiche speciali, regioni che garantivano incentivi fiscali e doganali, per attrarre investimenti esteri. Per capire l’importanza della svolta verso la proprietà privata, una sorta di rivoluzione nella cultura cinese, bisogna pensare che in cinquemila anni di storia non è mai stato partorito un ideogramma per esprimere il concetto di “privato”. La sottovalutazione di questa svolta da parte dell’Occidente è un grande errore, commesso con la fermezza di chi continua a vedere la Cina come un nemico e non come un possibile partner.

È con le nuove vesti della Cina che Xi Jinping intende realizzare il sogno di dare ai cinesi benessere, potenza e rispetto. Per raggiungere questi risultati è necessario che la Cina riconquisti il predominio in Asia che aveva prima dell’intrusione degli occidentali, che renda più solidi i suoi confini in terraferma e in mare, che recuperi il rispetto delle altre potenze nei consessi internazionali. I pilastri della sua politica sono quattro: continuare a ripulire il Partito dalla corruzione, sostenere la rivoluzione economica con riforme strutturali anche dolorose, rendere più forti le forze armate, dare vigore al nuovo patriottismo che va facendosi strada, un patriottismo istituzionale che ricorda Habermas, cioè il superamento dell’idea di nazione come casa di persone che hanno le stesse origini sostituito dal concetto di Paese abitato da persone che hanno la stessa base di valori.

Nella cultura occidentale c’è una frase ricorrente, “perché non si ripeta più”, per indicare il rifiuto totale del nazismo e del fascismo. L’espressione incisa nella memoria dei cinesi è wuwang guoch, che significa “mai dimenticare l‘umiliazione inferta alla nazione”. Le umiliazioni sono quelle inflitte dal Giappone e dall’Occidente, ricordi che penetrano tanto in profondità che diventa impossibile rimuoverli. È questa la legna che alimenta il fuoco del patriottismo cinese, un patriottismo che ha tratti di nazionalismo anche se, è giusto ricordarlo, nella guerra civile contro Chiang Kai-shek, Mao sconfisse proprio il nazionalismo.

Negli ultimi vent’anni, la Cina ha fatto registrare una crescita economica e finanziaria davvero portentosa.  Una regola da sempre rispettata nella politica cinese è non indicare mai obiettivi e date di realizzazione. Dimostrando una sicurezza di sé quasi napoleonica, alla sua prima elezione Xi Jinping infranse la regola indicando due obiettivi e due date: raddoppiare il PIL pro capite entro il 2021, centenario della fondazione del Partito Comunista Cinese; trasformare la Cina in un Paese moderno, sviluppato, ricco e potente entro il 2049, centenario della Repubblica Popolare. Il primo è stato raggiunto, il secondo lo sarà forse anche prima del 2049. E il secondo obiettivo comprende anche, ricordiamolo, il ritorno a casa di Taiwan.

Oggi la Cina è la prima economia del mondo malgrado una bassa produttività individuale; il giorno in cui eguaglierà la produttività americana, avrà un’economia pari a quattro volte quella degli Stati Uniti. Per aumentare la produttività sta progressivamente alzando l’asticella della qualità, puntando sulle tecnologie e soprattutto curando lo sviluppo dei talenti. È possibile mantenere questo ritmo di crescita? A precise condizioni, sì. Le condizioni sono: sviluppare la domanda interna, ristrutturare le imprese inefficienti, rafforzare la base scientifica e tecnologica, diffondere la capacità imprenditoriale, evitare di inguaiarsi con i debiti. Ma serve anche lasciar volare gli uccelli, locuzione con la quale Xi Jinping rivendica il diritto di poter partecipare a pieno titolo al libero commercio.

È inutile nasconderlo: la manodopera a basso costo continua a rimanere l’arma competitiva della Cina, ma è innegabile che nell’ultimo ventennio, i salari dei lavoratori cinesi sono aumentati quasi di dieci volte… e questo ci rivela in modo impietoso quali fossero prima le condizioni dei lavoratori. Ma i problemi non sono ancora risolti perché rimane ancora alto il tasso di disuguaglianza, un duro colpo per un’economia socialista! Il tasso di disuguaglianza ancora alto, e mai nascosto dalla leadership, ci sbatte in faccia una verità difficile da digerire: se lo sviluppo economico non viene governato, in Cina si rischia di creare una brutta copia del capitalismo occidentale!

Per onestà intellettuale bisogna tuttavia chiarire che la battaglia alla povertà sta dando i suoi frutti, grazie a un’azione basata sul concetto “uno-due-tre”: garantire a tutti un reddito oltre la soglia di povertà, togliere alle famiglie le preoccupazioni di cibo e vestiti e offrire loro tre garanzie: casa, educazione e cure mediche. La Cina vuole eliminare la povertà attraverso lo sviluppo tecnologico, ma vuole evitare che sia l’anarchia a stabilirne le direttrici. È questo il senso della Grande Muraglia Digitale, che separa l’internet cinese da quello del resto del mondo con l’obiettivo di garantire che in Cina non ci sarà mai un dark web nel quale l’illecito si confonda col lecito. C’è ancora molto da fare, ma questo non preoccupa la leadership cinese. “È nel momento più freddo dell’anno che il cipresso, ultimo a perdere le foglie, rivela la sua tenacia”, scrive Confucio. Alla Cina mancano molte cose, non la determinazione. Ricordiamo che sono stati necessari 1.800 anni per la costruzione dei 22.000 chilometri complessivi della Grande Muraglia, 12 chilometri all’anno, 1 al mese, tutto a mano, senza macchine. Si sono perse anche un milione di vite umane, oltre 500 l’anno. Verrebbe da pensare che, se è stata fatta la Grande Muraglia, sarà condotta a termine anche la battaglia contro la povertà e le disuguaglianze, che non è l’unica sfida che Xi Jinping vuole vincere. Essere la prima nazione del mondo significa esserlo non solo sul piano economico, ma anche nel campo della salute, della difesa, della scienza, della tecnologia e della cultura.

Gli strabilianti dati economici non sono, tuttavia, sufficienti all’Occidente per accantonare la storica riserva nei confronti di Pechino: tutto avviene e tutto gira intorno al Partito. Dipende da come si approccia il problema. Nella cultura cinese, il Partito è la versione nei nostri tempi dei mandarini imperiali, l’uno e gli altri custodi di una civiltà orgogliosa. Il Partito è l’erede dei Qing e questa equazione ne determina la legittimazione, che va letta non solo in chiave politica, ma anche culturale. Il centralismo è da sempre nella tradizione culturale cinese e nello stesso confucianesimo, esiste da molto prima dell’avvento del marxismo. Tutto il pensiero cinese è inteso a fissare le norme di comportamento delle classi dirigenti dalle quali si ritiene dipenda la prosperità e la felicita dei governati. La classe dirigente era ieri la dinastia imperiale, oggi è il Partito. In questa logica, si largo un altro dei detti di Confucio: L’uomo che vuole dirigere un’orchestra deve saper girare le spalle alla folla. Nel nostro caso, l’orchestra è una nazione formata dall’unione di 56 diversi minzù, gruppi etnici, il più importante dei quali, di gran lunga, è l’etnia Han. Governare un Paese del genere è estremamente difficile, soprattutto se si condivide l’assunto che uno sviluppo economico, ovunque esso si realizzi, ha bisogno di stabilità.

La verità che l’Occidente fatica a prendere in considerazione è che il popolo cinese vuole una Cina risanata, lo aspetta da tempo… da tanto tempo. Finché Xi Jinping, e chi comanderà dopo di lui, garantirà con i fatti la marcia verso questo obiettivo, il popolo cinese sarà unito e non manifesterà alcun mal di pancia. Forse è proprio per questo che il presidente cinese ha ordinato ai funzionari di tutto il Paese di leggere Confucio e gli altri filosofi cinesi per essere essi stessi promotori dell’autostima nazionale. No, il sogno cinese non è fatto solo di economia, ma anche di fuxing, che può essere tradotto nella nostra lingua in rinnovamento.

Ma dopo questo connubio tra sviluppo e rinnovamento quale Cina ci sarà? Una Cina con ambizioni egemoniche che spodesterà gli Stati Uniti? Non è facile conoscere le strategie della Cina, cioè del Paese di Sun Tzu, i cui principi dicevano: “I tuoi piani siano oscuri e impenetrabili come la notte, e quando ti muovi, cadi come un fulmine”. Sbagliando il primo bottone della camicia, anche gli altri andranno di conseguenza, di male in peggio. Allora, poniamo attenzione al primo bottone. Oggi la Cina non è più il Paese rurale, immutabile, imperscrutabile e addormentato che è stato per lungo tempo, ma un Pase leader in molti settori dove vengono investiti ogni anno milioni di yuan in ricerca e sviluppo e non ha più un umiliante ritardo tecnologico rispetto agli Stati Uniti: è il più grande produttore di navi, acciaio, mobili, abbigliamento, telefoni cellulari, computer. La Cina non vuole dipendere più dalle esportazioni, soprattutto di shanzhai, i prodotti di imitazione, ma dai consumi interni. Più che conquistare il mondo, la Cina vuole conquistare il proprio mercato interno, un mercato di quasi un miliardo e mezzo di persone! Se la Cina crea le condizioni affinché ogni cittadino sia un consumatore, e conquista il proprio mercato interno, non ha bisogno di cercare altrove il proprio benessere.

Con la giusta combinazione di tecnologia e politica economica, riuscirà la Cina a creare un sistema più equo ed efficiente del capitalismo che conosciamo? Forse sì, ma non possiamo affermarlo con certezza. Con certezza possiamo invece affermare che, ammesso che lo voglia, la Cina non sarà mai un impero. Glie lo impedirà un fattore che riguarda da vicino anche gli Stati Uniti, argomento di un prossimo articolo.

Con il progresso economico, la Cina farà rifiorire anche la propria millenaria filosofia e saprà competere con il resto del mondo, in particolare con l’Europa, anche sul piano culturale? Mi piace l’idea che la Cina possa diventare, per motivi culturali e non politici, una potenza di riferimento mondiale. Cerco di spiegarmi. L’ascesa di una nuova potenza è stata storicamente anche la nascita di una nuova civiltà. Non c’è mai stato un nuovo potere egemonico che non sia stato capace di esprimere un nuovo modello di civiltà. La civiltà che sogno deve avere una visione del mondo e dei rapporti internazionali basata sul beneficio reciproco e sulla condivisione, che a me paiono le anime ispiratrici della multipolarità. La Cina, cosa è disposta a offrire al mondo nel caso in cui avesse un qualche ruolo egemonico nel mondo? E quando ci sarà questa rinascita? Probabilmente “presto”, a condizione che all’avverbio di tempo si dia un significato storico, coerente con la cultura cinese che ama guardare più al medio-lungo periodo che all’immediato.

Mario Grasso

Mario Grasso

Mario Grasso, laureato in Scienze Sociali, giornalista pubblicista, un passato da manager aziendale e saggista, un presente da scrittore di narrativa

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