Raoul Pupo, uno tra i più grandi storici del confine orientale, ha sempre cercato di far chiarezza su quel controverso mondo che ancora oggi suscita rivalità, suggerisce provocazioni, anima rivendicazioni. I suoi tanti libri sull’argomento stanno lì a dimostrarlo, ricevendo attestati di stima e condivisione da tutte, o quasi, le parti in causa.
Quasi, perché c’è sempre qualcuno che la Storia, con la S maiuscola, la legge con gli occhiali deformati della ideologia e del fanatismo nazionalistico. Il che è pressoché patologico visto che, per dirla con le parole di Raoul Pupo riportate nel suo ultimo lavoro Italianità adriatica, appena uscito per i tipi dell’editore Laterza “ogni storia di frontiera è storia di sovrapposizioni e ciò comporta parecchie conseguenze. In primo luogo, sovrapposizioni di mondi significa incrocio e commistione di genti”.
Non si può, infatti, non tenere conto delle diverse dominazioni che si sono avvicendate su quelle terre adriatiche nei secoli, tanto che, se si vuole fare chiarezza, questo ultimo libro di Raoul Pupo, per la sintesi che ne fa, diventa una lettura necessaria. È, sì, un libro di storia, ma con lo sguardo rivolto al presente, si può dire all’attualità se consideriamo che, mentre questo libro era già in stampa, la cronaca ci informava di una scritta offensiva in sloveno e di mano ignota apparsa a grosse lettere sul monumento della foiba di Basovizza, nello stesso momento in cui i Presidenti delle Repubbliche italiana e slovena, insieme, inauguravano l’anno di Nova Gorica/Gorizia Capitale Europea della Cultura.
Il titolo Italianità adriatica è, poi, particolarmente significativo, perché l’italianità rappresenta la spina dorsale dei conflitti che hanno attraversato e continuano ad attraversare le terre poste al di là dell’Adriatico, dalla Venezia Giulia e Friuli lungo tutti i Balcani occidentali. Conflitti che, se nei secoli passati erano latenti o, comunque, se esplosi, risolti con colpi di mano, dal Novecento in poi si sono rivelati violenti e sanguinari, con due guerre e tragedie che hanno dato il via al più grande esodo degli italiani e, per riempire il vuoto demografico da questo lasciato, alla più rapida e indotta sostituzione di genti nella storia di quelle terre.
In discussione, dicevamo, proprio l’eccesso di italianità presente lungo le cose orientali dell’Adriatico, per cui c’è chi legge tale identità facendola risalire agli albori delle conquiste romane, per poi proseguire con quelle della Repubblica di Venezia. La quale resta, comunque, la maggior indiziata nell’imprinting linguistico, culturale, simbolico (il leone di San Marco) di queste terre, per il resto abitate da genti di etnia, lingua e cultura diverse, in qualche modo, però, secondarie in una scala che faceva della lingua italiana la lingua franca nella vita civile e culturale dei suoi abitanti.
E se la parte sudorientale più meridionale, greca e bizantina, si è risolta, anche se non pacificamente, con il prevalere dell’impero ottomano su quello di Venezia, altro discorso va fatto per il mondo giuliano e dalmata che contava su una consistente presenza slava. Con una complicazione che, dal XVIII secolo fino alla Prima guerra mondiale era data, con la fine di Venezia, dal dominio su di esse dell’impero austroungarico.
Il quale, proprio di fronte al predominio degli italiani nella società civile, e già scottato dai moti irredentisti del lombardo-veneto e dallo svegliarsi del separatismo in Istria e Dalmazia, preferirà sostenere la componente slava, croata e slovena, alimentando i nazionalismi dell’una e dell’altra parte e la conflittualità tra le popolazioni autoctone dell’adriatico.
Conflittualità che porterà con la Prima guerra mondiale e poi con la Seconda a una resa dei conti, particolarmente dolorosa per gli italiani, che hanno comunque le loro gravi responsabilità politiche: quelle di aver dato, dopo secoli di egemonia culturale, potere, col fascismo, al nazionalismo più becero, all’odio razziale sul quale quella idea si forgiava, invece che voce e corpo alla cultura di uomini come Slataper o i fratelli Stuparich e altri che parlavano di “identità plurima”, quale era la realtà di quelle terre.
Identità plurima, che non c’è più, avendo preso piede, dagli anni Quaranta e con Tito, se non “un disegno ufficiale di eliminazione totale della presenza italiana in Jugoslavia”, come scrive Pupo, a “un programma assai serrato di smantellamento dell’italianità adriatica messo in atto senza risparmio di energie e senza alcuna ritrosia sui metodi da adottare”.
Un programma per cui, tutt’oggi, per concludere ancora con le parole di Raoul Pupo, l’italianità adriatica è “intesa dagli sloveni e dai croati, come sinonimo di oppressione”. Ma, forse, per l’Adriatico è un prezzo troppo alto. Avrebbe fatto più bene, a riguardo, un destino simile a quello dello Jonio, le cui terre fanno delle culture che in passato le hanno nutrite motivo di studio, orgoglio e celebrazioni, non certo di cancellazione.
Diego Zandel