Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Anna Mastromarino, Professore Associato di Diritto Pubblico Comparato – Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino
Caro Riccardo,
come si può ben immaginare, delle vicende che sono seguite alla pubblicazione su questa rivista del tuo articolo Rousseau, oblio su una distorsione paradossale della democrazia non sono gli aspetti giudiziari quelli che più mi hanno interessato.
Da costituzionalista, che con te ha riflettuto tante volte di democrazia e procedura, è sugli aspetti di diritto pubblico che la mia attenzione finisce con il soffermarsi, cogliendo nuovi spunti. Non vi è dubbio, infatti, che, per quanto spiacevoli siano gli avvenimenti che stanno coinvolgendo te e la Rivista, il caso costituisce un’occasione di riflessione di grande rilevanza per aprire un dibattito pubblico che certo sta tardando a imporsi, ma che i recenti accadimenti agevolano. Non tutto il male vien per nuocere, forse.
Mi perdonerai, dunque, se dialogando apertamente con te coinvolgo in questi miei brevi pensieri anche i lettori della Rivista, ragionando a voce alta sulle derive democratiche, cui, ancora una volta, la confusione attorno al senso della democrazia diretta nel nostro ordinamento sta conducendo.
Assistiamo negli ultimi anni al progressivo rafforzamento dell’idea, priva invero di conferme, ma ricca assai di smentite che la storia e la filosofia politica non hanno mancato di fornire, che le forme della democrazia diretta siano le più perfette forme della democrazia, rimpiazzabili da istituti di rappresentanza fintanto che non vi sia il modo di istituire un regime in cui il popolo parli definitivamente per sé, decida per sé…magari attraverso l’ausilio di una piattaforma.
Questa prospettiva parte dal presupposto (…sbagliato, secondo chi scrive) che nessuno meglio del popolo possa occuparsi del popolo; che nessuno meglio del popolo sappia cosa sia meglio per il popolo. Ma presuppone, anche, una visione antropomorfa del popolo immaginato come un soggetto unitario e razionale.
Nulla di più lontano dalla realtà.
Non mi soffermerò qui sui limiti di una simile posizione e sui disastri a cui in altre epoche ha portato…evidentemente non siamo ancora abituati a imparare dalla storia.
Mi interessa più soffermarmi sulle derive cui una simile impostazione può condurre.
Ad esempio quando, si finisce con l’essere apostrofati come “nemici del popolo” se si provano a valutare con senso critico le dinamiche sottese ad una procedura telematica che si presenta come megafono che amplifica il volere del popolo in presa diretta (…mi si consenta il rinvio a una espressione cara a un maestro torinese, Alfonso Di Giovine, che molto si è soffermato, criticandole, sulle opzioni offerte dalla consultazione popolare).
Pare, infatti, che nessun dubbio possa essere sollevato in merito alla legittimazione, alla credibilità, alla trasparenza, se a parlare è il popolo. Quasi che davanti al popolo cessi il dritto di critica, perché in termini assoluti deve essere considerato apprezzabile ogni tentativo di organizzare la sua decisione, non importa a che prezzo.
Ma come non vedere, ancora, e non è la prima volta nella storia del pensiero europeo, i rischi di manipolazione cui sottoponiamo il nostro sistema democratico elevando a parametro di giustizia e verità la voce di un soggetto pretesamente omogeneo, uguale a se stesso e come tale inesistente?
Quando la società si esaurisce nell’idea di popolo, cosa resta, infatti, di un progetto di vita sociale in cui il pluralismo e la sua tutela rappresenta il marchio di fabbrica; di uno spazio politico che è spazio del possibile e delle opinioni; detto altrimenti, cosa resta della democrazia costituzionale che sorge dalle tragedie del Novecento basandosi sul principio di non discriminazione e che presuppone la differenziazione?
Mi spaventa l’idea secondo cui la presupposta superiorità della democrazia diretta rispetto a quella rappresentativa conduca a una esaltazione del popolo, senza spirito critico; uno società in cui la difesa ad oltranza dello strumento con cui assumere una decisione conti più dell’analisi delle procedure con cui la decisione è espressa; più delle garanzie di tutela assicurate al dissenso; più dei contenuti della decisione stessa.
E ancor meno mi rassicura pensare che nella difesa a oltranza di quello strumento si possa arrivare a ritenere che davanti alle perplessità che uno spirito critico può sollevare, prima ancora di aprire un confronto dialettico, prima di provare ragionevolmente a rispondere a quelle critiche, l’unica via immaginata sia quellagiudiziaria, considerando irriducibile il diritto di chi in qualche modo, ma non importa come, pretende di parlare in nome del popolo.