Paolo Schweitzer, fiumano ed ebreo come il suo amico e quasi coetaneo Leo Valiani, già Weiczen, assunse il nome di Paolo Santarcangeli in onore di Santarcangelo di Romagna dove visse in clandestinità durante il periodo fascista in seguito alle leggi razziali, non mancando di dare il suo apporto alla Resistenza. E con questo nuovo nome, al pari appunto di Leo Weiczen diventato Valiani, uno dei padri costituenti della Repubblica, Santarcangeli fu conosciuto in Italia sia come scrittore e poeta che come esimio traduttore dall’ungherese, lingua e letteratura della quale avrebbe ottenuto nel 1965 la cattedra, da lui fondata, dell’Università di Torino.
L’esilio da Fiume a causa delle leggi razziali
Prima il campo di concentramento, poi Trieste e l’amore
Il libro è stato scritto originariamente nel 1987, trent’anni dopo l’altro suo memoir “Il porto dell’aquila decapitata”, che racconta invece il suo esilio definitivo da Fiume in seguito al passaggio della città alla Jugoslavia. Una scelta difficile per chi, come lui, arrestato a Fiume una prima volta il 18 giugno del 1940, era stato trasferito nel campo di concentramento di Tortoreto, in provincia di Teramo, e quindi in quello di Perugia, sempre anelando di tornare a casa. Desiderio che, alla caduta del fascismo il 25 luglio del 1943, non poté essere esaudito. Fermatosi a Trieste, dove avrebbe conosciuto Ondina Chenda, la donna che avrebbe sposato e dalla quale poi, quasi subito, si sarebbe dovuto separare per nascondersi a causa delle rappresaglie tedesche, per arrivare così, dopo altre traversie, appunto a Santarcangelo di Romagna, dove avrebbe trovato riparo in un convento.
Gli anni della prigionia
“In cattività babilonese” ne è, appunto, la appassionta testimonianza. Ma finita la guerra, al ritorno a Fiume dalla “prigionia babilonese”, trovò la sua casa espropriata dal regime comunista e abitata da altri, tanto da trovare con la madre, nel frattempo rimasta vedova, una temporanea sistemazione di fortuna. Da qui la dolorosa decisione del definitivo esilio, che lo porterà per sempre via da Fiume, dov’era nato nel 1909 e che non vorrà mai sentir chiamare Rijeka, nome mutato dagli jugoslavi, nonostante si fosse sempre chiamata col nome di Fiume, anche sotto il Regno d’Ungheria del quale era stata il porto principale. Come annota Santarcangeli nel suo libro, nella città occupata dai titini tutto era troppo cambiato “nei caffè, altra gente; altro il modo di starvi seduti, altro il sapore del caffè e delle bevande; e soprattutto, altra la lingua”.
Il valore di una incredibile città come Fiume
Il che, davvero, per un poliglotta come lui che – come molti fiumani – parlava quattro lingue, era davvero qualcosa di non famigliare, di straniero, di intollerabile. Da città cosmopolita qual’era Fiume, multietnica, multiculturale, multi confessionale, in cui cattolici, ortodossi, ebrei con ben due sinagoghe, una delle quali sefardita e italiani, croati, sloveni, magiari, austriaci, greci convivevano nel reciproco e pieno rispetto, fu ridotta in pochi anni a città a una dimensione. Quella jugoslava e comunista, costretta alla sostituzione forzata della tradizionale lingua franca rappresentata dall’italiano, nella sua declinazione dialettale fiumana di origine veneta, con il serbocroato. Anche perché il quasi totale vuoto demografico lasciato dagli italiani fu riempito con popolazioni provenienti dall’interno della ex Jugoslavia, che nulla avevano a che fare con le tradizioni cittadine.
I numerosi autori della letteratura ungherese
Santarcangeli se ne andò, così, prima a Trieste, quindi a Ivrea per lavorare alla Olivetti, infine a Torino dove, appunto, fondò la cattedra di lingua e letteratura ungherese. Ma prima ancora della Cattedra si deve a Santarcangeli, così come a Ignazio Balla o a Pietro e Luigi Zambra, padre e figlio, entrambi alla direzione della Cattedra di Lingua e Letteratura italiana di Budapest negli anni Venti e Trenta, la grande fortuna in Italia della letteratura ungherese. Quando i romanzi di Ferenc Körmendi, Lajos Zilahi, Mihali Földi o Ferenc Molnàr, con il suo “I ragazzi della via Pal” erano autentici best sellers. Torino, dove sarebbe morto nel 1995 a 84 anni, sarebbe stata la sua ultima tappa, città dove ancora vive la figlia Anna Lea, così come vi aveva vissuto il figlio Arturo, ora scomparso, stesso nome del nonno paterno Arthur Schweitzer.
Entrambi i libri, “In cattività babilonese” e “Il porto dell’aquila decapitata”, il primo con la prefazione del concittadino e correligionario senatore Leo Valiani, sono stati editi in origine dall’editore Del Bianco di Udine, che purtroppo ha chiuso i battenti, per cui sono ormai pressoché introvabili. Ma l’AFIM e la Comunità degli Italiani di Fiume, hanno in progetto di provvedere alla riedizione dei suoi libri più importanti.
Un autore poliedrico
Tra questi ultimi vale la pena di ricordare anche “Il libro dei labirinti”, originariamente pubblicato nel 2000 da Sperling&Kupfer, con una prefazione di Umberto Eco nella quale invita alla lettura del libro esoterico di Santarcangeli che “ci riconduce a visitare le profondità storiche e mitiche, di questa idea primordiale” rappresentata dal labirinto. Ma la sua personale bibliografia consta in altri saggi (in evidenza “Homo ridens” sull’umorismo ebraico) e poesie, tra le quali si provvederà in un prossimo futuro alla riedizione del “Diario del Tigullio” uscito nel 1989 per Vallecchi. Libri tutti che meritano di essere riletti.
Diego Zandel