Con un voto netto alla Camera, Donald J. Trump è diventato solo il terzo Presidente USA, dopo Andrew Johnson e William Jefferson Clinton, a subire l’onta dell’impeachment, ovvero del rinvio a giudizio in Senato. Il processo si terrà con tutta probabilità tra gennaio e febbraio.
La decisione della Camera, a seguito di indagine in Commissione Giudiziaria, ed acerrimo dibattito in sede plenaria, è stata fondamentalmente presa al vertice, dall’italo-americana Nancy Pelosi, presidente della Camera, che l’ha spiegata come l’ottemperanza ad un dovere istituzionale e ad un concetto di base, secondo cui nessuno, neppure il Presidente, è al di sopra e al di fuori della legge.
La coerenza con questo dovere, assolutamente corretta, si scontra purtroppo con la realtà politica. Non vi è dubbio infatti che Trump, in un 2020 di campagna elettorale, si autodipingerà vittima di un attacco politico, incitando ancor di più la sua base elettorale, e giocherà una mano, forse vincente, sulla forza della pressoché certa assoluzione che riceverà in Senato. Dei 100 senatori, infatti, 53 sono repubblicani, e la condanna del Presidente richiederebbe 67 voti a favore – impossibile.
Se così fosse, l’impeachment non sarebbe servito a nulla se non a rieleggere un Presidente che, in un eventuale secondo ed ultimo mandato, sarebbe ancor più libero di agire e comunicare nel suo stile da bullo, acido, di parte e fondamentalmente non americano.
Passati sono i tempi del Senato di Nixon, in cui furono i repubblicani stessi a forzare la mano al Presidente e a costringerlo a dimettersi prima del voto plenario della Camera. Passati sono i tempi dei giganti della politica. E, ritengo, passati sono i tempi dei doveri istituzionali. Mi ricorda, purtroppo, un fumetto che ho visto recentemente, in cui, entrando in libreria, un signore chiede di vedere un libro sui politici onesti. E viene indirizzato alla sezione fantascienza.
Antonio Valla