In alcuni ambiti, continua a sopravvivere, nei fatti, la grave approssimazione che riconosce un’importanza ridotta all’area che va dal Marocco all’Asia Centrale, quel Medio Oriente allargato che, nei giorni che stiamo vivendo, conferma invece di essere un tema di grande rilevanza geopolitica, forse quello che più di altri può destabilizzare il mondo intero. A renderlo tale non è solo la questione israelo-palestinese, ma anche e, soprattutto, l’incognita Iran.

Alla domanda se l’instabilità in Medio Oriente possa veramente essere un serio pericolo per la pace mondiale, la risposta non può che essere affermativa. Il Medio Oriente è un crocevia di interessi geopolitici globali e regionali, con una complessità di fattori storici, religiosi, economici e politici che rendono difficile trovare soluzioni semplici ai problemi esistenti. I conflitti in corso in quell’area – non solo a Gaza e Cisgiordania, ma anche in Siria, Yemen e Iraq – possono facilmente estendersi oltre i confini nazionali, coinvolgendo potenze regionali e internazionali.

La scintilla che innescò l’incendio che ancora divampa in quest’area scoccò nel 1947, quando le Nazioni Unite decisero la spartizione del mandato della Palestina in due Stati: uno ebraico e uno arabo. Oltre 700mila palestinesi furono costretti a lasciare la terra in cui vivevano da sempre, uno sradicamento che fu definito nakba, “catastrofe”, che continua a essere trasmesso da generazione a generazione. Un rebus irrisolvibile, non solo per una oggettiva difficoltà, ma soprattutto per la mancanza di una volontà politica. Questo è ciò che si respira. La questione israelo-palestinese rimane un problema persistente e irrisolto. Un problema che si è incancrenito nella coscienza dei due popoli diventando disprezzo che produce altro disprezzo, odio che genera altro odio, violenza che fa nascere altra violenza cieca e sorda a ogni richiamo al buon senso.

In questo scenario si collocano, nella maniera più macabra possibile, gli assurdi attacchi in territorio israeliano, di stampo terroristico, di Hamas (e gruppi collaterali) del 7 ottobre 2024 e l’avvio successivo delle feroci rappresaglie militari israeliane a Gaza, che fino a oggi sono costate la vita a 42.800 persone, in buona parte donne e bambini.

Negli ultimi decenni, l’Iran si è formalmente tenuto fuori dalla bagarre, confidando nella guerra per procura praticata da gruppi proxy – cioè formazioni militari, paramilitari e politiche estranee alla propria nazione – per colpire interessi vitali in territorio israeliano. L’Iran supporta e finanzia numerosi gruppi, come gli Hezbollah libanesi, gli Houti yemeniti, le milizie sciite Kata’ib e e Asa’ib Ahl al-Haq in Iraq, e anche alcune fazioni ribelli in Siria. Negli ultimi tempi, però, sono accaduti due episodi che sarebbe grave colpa ignorare perché rivelano un cambio delle regole a partita in corso: l’Iran ha risposto in prima persona all’attacco mirato israeliano a una sede diplomatica iraniana in territorio siriano con un’azione di fuoco, volutamente temperata da largo preavviso. Ma non ha ancora attivato la risposta militare, pur avendola esplicitamente promessa, all’attentato mortale contro il capo di Hamas – Ismail Haniyeh – avvenuto nel cuore della capitale iraniana.

Perché non c’è stata una risposta militare in grande stile all’ultima scellerata iniziativa di Israele? Perché l’Iran sa di non essere in grado di fronteggiare la potenza militare israeliana o perché l’Iran sta cercando in tutti i modi di evitare lo scoppio di un conflitto? La verità è forse in entrambi gli interrogativi. Forse, ma non è certo.

L’Iran non va sottovalutata sul piano militare, non ha solo droni ma anche razzi a lunga gittata a guida GPS e missili ipersonici costruiti su licenza russa. E anche missili EMP (cioè mini-atomiche in grado di generare un impulso elettromagnetico distruttivo, in grado di “friggere” quasi ogni apparato elettronico esistente, nella zona bersaglio). E se questi missili li ha l’Iran, li hanno anche gli Hezbollah e gli Houthi.

Gli obbiettivi israeliani da colpire sono facilmente identificabili: il porto e l’oleodotto di Eilat-Askelon, la centrale atomica di Dimona (già colpita con una testata non esplosiva nell’ultima risposta in qualche modo “concordata”), il porto di Haifa, la centrale elettrica di Rutenberg, il terminal dell’aeroporto internazionale Ben Gurion, e le varie basi militari come Mitzpe Ramon, nel deserto del Negev.

I sistemi antiaerei israeliani sono in grado di contrastare attacchi a saturazione e prolungati provenienti da direzioni diverse (Gaza,Libano,Iran)? Non lo sappiamo, ma forse è meglio non verificarlo con i fatti. Sappiamo invece che Israele ha armi atomiche, e ha già sbandierato più volte l’intenzione di usarle, se provocato. Ed ecco che le ipotesi su ciò che potrebbe accadere diventano uno scenario da incubi, tra i quali bisogna necessariamente includere la chiusura del traffico navale sugli stretti, operata dagli alleati dell’Iran, che bloccherebbe le rotte del petrolio. E se i sauditi dessero loro il minimo pretesto, bombarderebbero raffinerie e pozzi petroliferi. Sarebbe una catastrofe per l’Europa, ma anche per molti paesi dell’area asiatica, che si vedrebbero privati di rifornimenti energetici indispensabili. Una situazione insostenibile, che metterebbe in vantaggio la Russia – pur totalmente esterna al conflitto – che diventerebbe l’unica fonte di rifornimento disponibile e praticabile per l’Asia.

Allora, perché non c’è ancora stata la tanto promessa reazione militare iraniana? Penso, o forse spero, che nessuno voglia un conflitto tra Iran e Israele. Molti segnali dicono che nessuno degli attori mediorientali vuole una guerra con Israele. Non la vuole Hezbollah che, a differenza di quanto accaduto nel 2006, teme che questa volta i libanesi potrebbero ritenere il gruppo responsabile di un conflitto indesiderato.

Non lo vuole nemmeno Teheran, non solo per la forza militare di Israele, ma anche per il timore di una crescita del dissenso interno, che potrebbe portare addirittura a un rovesciamento del regime. Non lo vuole la Cina, che vede come fumo negli occhi l’ipotesi di una guerra per procura nel caotico Medio Oriente, almeno per ora. Non lo vogliono gli Stati del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, impegnati a perseguire ambiziose riforme economiche e sociali per diversificare le loro economie, andando oltre il petrolio. Obiettivo che richiede innanzitutto un clima di stabilità, che una guerra nella regione renderebbe del tutto utopico.

Non lo vuole nemmeno la Russia, alle prese con l’Operazione Speciale che si fa sempre più impegnativa. Ma ciò non le vieta di essere attiva: il segretario del Consiglio di sicurezza russo, Sergei Shoigu, è stato a Teheran, non certo per portare i saluti di Putin al neo presidente Masoud Pezeshkian, ma per rinsaldare l’amicizia tra i due Paesi. Però, si è anche parlato di armi e di reciproca assistenza, ma dalle dichiarazioni rilasciate non emerge alcun riferimento specifico a Israele.

Una “reciproca assistenza” che rende attuali le parole di Putin: “Armeremo i nemici degli USA esattamente come loro armano i nostri“. Nonostante la generale convinzione che, in caso di conflitto, gli Usa si schiererebbero a fianco di Israele, non va esclusa l’ipotesi che nemmeno Washington vuole una guerra esplicita tra Iran e Israele perché, per essere vinte, le guerre impongono il controllo reale del territorio avversario, ma l’esperienza insegna che è un’idiozia pensare di poter vincere una guerra in casa d’altri, dall’altra parte del mondo: ogni volta che gli americani hanno messo “gli stivali sul terreno nemico” sono ritornati a casa con la coda tra le gambe, perché la loro potente struttura militare è pensata per distruggere, non per vincere le guerre. Di fatto, gli Stati Uniti perdono quasi tutti i conflitti cui partecipano.

La ragione di solito è la loro interpretazione ideologica di realtà che non conoscono bene. Basta guardare l’elenco di guerre dissennate cui gli Stati Uniti hanno partecipato. Vietnam prima di tutto, ma anche Afghanistan e Jugoslavia e, al di là delle apparenze, anche Iraq, Siria e Libia. Inoltre, è necessario riflettere sul fatto che il territorio iraniano è costituito da massicci montuosi che diventano un grande vantaggio tattico perché i carri armati non potrebbero passare tra le montagne.

Certo gli americani potrebbero bombardarli, ma alla fine se non invadi da terra il paese non potrai mai veramente controllarlo, soprattutto se è un paese con 80 milioni di abitanti e con un milione di uomini delle forze armate, fanatici e pronti a sacrificarsi a tutto. E questo gli States lo sanno bene. Anche gli iraniani sanno bene che non possono battere gli Stati Uniti, ma sanno altrettanto bene che chiunque metta piede nella loro terra non la passerebbe liscia.

In conclusione, molti elementi inducono a ritenere difficile una guerra tradizionale tra Iran e Israele. A questo punto, la vera variabile impazzita potrebbe essere proprio la risposta iraniana, o meglio il tipo di risposta che verrà data. Infatti, una risposta contro Israele ci sarà, anche se è impossibile sapere quale forma prenderà. La risposta ci sarà per frenare l’ascesa di una scalpitante nuova generazione di militanti guardiani della fede, i cosiddetti pasdaran, che sta prendendo il sopravvento sulla vecchia guarda degli ayatollah che hanno vissuto da protagonisti il 1979 (vittoria del Movimento rivoluzionario iraniano ed esilio dello scià Reza Pahlavi) e la rivoluzione khomeinista. La tattica del “mordi e fuggi” verso Israele attraverso la Mezzaluna Sciita e i gruppi filo-iraniani non soddisfa più le aspettative di chi ritiene troppo arrendevole l’atteggiamento della Repubblica islamica negli ultimi decenni.

Mentre il caos lievita in Medio Oriente, in Occidente si organizzano manifestazioni, incontri, dibattiti, verbosi e confusi talk show in cui opinionisti comodamente assettati si agitano in sterili discussioni, dimenticando che parte del problema è stato generato dalle politiche scellerate del mondo che sta proprio fuori da quei territori.

La conclusione è che l’instabilità in Medio Oriente rischia sul serio di essere un pericolo per la pace mondiale. Il Medio Oriente allargato rimane un crocevia determinante per gli equilibri del mondo. L’Occidente farebbe bene a pensarci due volte prima di dichiarare la fine del proprio interesse in quell’area molto delicata, dalla quale passa buona parte della nostra sicurezza. Ed è sperabile che lo faccia ricordando che l’odio non lo si combatte con le armi, tanto meno con ipocrite missioni di pace che dietro l’apparente spinta umanitaria nascondono interessi di parte che, il più delle volte, mirano a tutelare interessi economici e geopolitici. Ed è sperabile che lo faccia senza rendere concrete le parole di Henry Kissinger: “L’illegale lo facciamo subito. Per l’anticostituzionale ci vuole un pochino di più.
L’auspicio è che, chi deciderà le sorti del Medio Oriente, non faccia né l’una, né l’altra cosa.

Mario Grasso

Mario Grasso

Mario Grasso, laureato in Scienze Sociali, giornalista pubblicista, un passato da manager aziendale e saggista, un presente da scrittore di narrativa

Discussione

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *