Si è appena conclusa la 78° Assemblea Generale dell’Onu (la prima, si tenne, nel 1945 quando la guerra non era ancora definitivamente conclusa) e vale la pena fare qualche riflessione di contorno. Innanzitutto sulla ormai imminente riforma della carta dell’Onu (in questa puntata) e poi sulle mappe aggiornate del Grande Gioco dopo gli ultimi summit tra i nuovi e i vecchi potenti del mondo.
Partiamo da una considerazione personale
E’ la prima volta che, passando davanti al mitico Palazzo delle Nazioni (non dimentichiamolo, opera del nostro grande architetto Nervi) siamo stati assaliti da un’ombra di tristezza, di malinconia. Quel palazzo ha rappresentato per decenni, nell’aspro e rischioso periodo della Guerra Fredda, il simbolo della Pace, del dialogo, del confronto. L’Onu ha risolto numerosi conflitti locali, mandando i suoi caschi blu a difendere delle “paci armate” o delle popolazioni finite nelle mani di violenti assassini in cruente guerre civili o tribali. Ha fatto, sostanzialmente, il poliziotto, disarmato, salvo casi eccezionali, di un mondo che, pur nelle tensioni, nei contrasti, negli echi dei colpi di cannone, nel Palazzo di Vetro ha sempre trovato una mediazione virtuosa, un “cessate il fuoco” evitasse il peggio per tutta l’umanità.
Il Palazzo di Vetro sta perdendo il suo ruolo…?
Oggi, guardandolo dai marciapiedi sottostanti delle avenues newyorkesi, appare come un vecchio stanco e immobilizzato, incapace di mantenere quell’autorevolezza del ruolo rivestito per almeno 60 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. Un segnale di tale decadenza è stato solennizzato dall’assenza di tanti big, proprio all’Assemblea Generale tenutasi a New York nei giorni scorsi. Una volta tale Assemblea, era il momento più importante dell’anno per confrontarsi con gli altri protagonisti della diplomazia e della politica internazionale. Oggi è diventata un’occasione per incontri soprattutto bilaterali che avvengono spesso al di fuori del palazzo progettato da Nervi. Il Segretario Generale, Gutierrez, evidenzia ormai con cadenza ripetitiva “la necessità di una riforma a breve che ridia slancio alle Nazioni Unite”. Anche Jo Biden si è convinto che sia arrivato il momento di promuovere la riforma del Consiglio di Sicurezza, con l’allargamento del numero dei seggi permanenti.
Bisogna rivedere le carte statutarie dell’Onu
Il presidente americano sta finalmente, a nostro avviso, spingendo per una revisione delle carte statutarie dell’Onu per coinvolgere nel tavolo dei potenti anche i nuovi protagonisti delle geo-mappe internazionali. Biden immagina una riforma che riconoscendo un importante ruolo ai “nuovi potenti”, li attragga all’interno del modello occidentale evitando loro “fughe in avanti”, nell’area di influenza della Cina o comunque di organizzazioni internazionali non allineate come i Brics. Proviamo ad entrare nel merito del progetto di riforma presentato dal Presidente degli Stati Uniti durante i lavori dell’ultima Assemblea Generale dell’Onu. Il dossier di Biden si concentra sulla riforma del Consiglio di Sicurezza, il principale organismo dell’Onu, l’unico che abbia il potere di approvare risoluzioni legalmente vincolanti e decidere gli eventuali e conseguenti interventi militari dei caschi blu.
Secondo lo statuto attuale il Consiglio ha 15 membri. Cinque permanenti con il famoso diritto di veto; i vincitori, cioè, della Seconda guerra mondiale: Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna. Il Consiglio ha poi 10 membri non permanenti, eletti ogni due anni. Questo modello, nato sulle ceneri e sulle tragedie della Seconda guerra mondiale ha ormai dimostrato di non funzionare più per due ragioni.
Quel potere di veto che ingessa le decisioni
Prima ragione. Il potere di veto di uno dei 5 membri permanenti “ingessa” nella sostanza qualsiasi decisione dell’Onu. La guerra in Ucraina lo sta dimostrando in maniera lampante. Basta che Cina e Russia, alternativamente, alzino la mano e si oppongano ad una proposta di deliberazione per un intervento diplomatico e/o militare finalizzato a portare la pace in in quel territorio, tutto il processo deliberativo si blocca senza nessuna speranza di rimessa in moto.
Seconda ragione. I paesi emergenti, i nuovi potenti cioé, sono sotto rappresentati. Chiedono da tempo una maggior rappresentatività nel Consiglio che li legittimi a dire la loro opinione e ad esprimere la loro visione anche intorno al tavolo più importante dell’Onu.
A caccia di risorsa
Mentre la prima questione appare di difficile risoluzione (nessuno dei cinque titolari del diritto di veto rinuncerà mai a questa prerogativa!), Biden sta lavorando su una modifica delle carte statutarie mirata proprio a risolvere la seconda criticità. Fin dagli anni ’90 dell’altro secolo si era fatta l’ipotesi di una entrata nel Consiglio della Germania e del Giappone (le due nazioni sconfitte nella Seconda guerra mondiale) in parte perché divenute super potenze economiche, in parte, proprio perché avrebbero potuto offrire all’organizzazione internazionale il loro contributo proprio in termini finanziari. Anche gli Stati Uniti erano d’accordo in quanto avrebbero alleggerito la loro posizione di contributori per il 25% del budget totale dell’Onu. Il nostro Paese si è sempre opposto a questa soluzione. L’ambasciatore Francesco Paolo Fulci, nonostante l’Italia non contasse molto in quel consesso, riuscì nel miracolo di bloccare ogni tipo di riforma penalizzante per il prestigio e la rappresentatività del nostro Paese.
L’opzione italiana: Uniting for Consensus
Contando sul fatto che ogni riforma statutaria deve essere approvata da una maggioranza di 2/3 dei 193 membri, Fulci con una abilissima tessitura diplomatica riuscì sempre, fino ad oggi, ad evitare che i promotori della riforma raggiungessero il quorum richiesto. Il nostro governo si è poi reso promotore di una opzione alternativa denominata “Uniting for Consensus” che prevedeva l’aumento dei membri del Consiglio di Sicurezza a 26 senza aggiungere seggi permanenti. Oltre ai 5 “storici”, tutti gli altri membri, a rotazione, sarebbero stati eletti ogni 2 anni. Oggi, il Presidente Biden, come ha confermato il suo portavoce John Kirby, propone di rivedere la governance del Consiglio “per renderlo più inclusivo”. Nella sostanza aggiungere 5 o 6 seggi permanenti, senza diritto di veto, da riconoscere a Germania, Giappone, India, Brasile e Sudafrica. Proprio ad alcuni di quei paesi che sono corteggiati dalla Cina o dalla Russia nei Brics.
Quale sarà il ruolo dell’Africa
Il grande assente nella proposta americana è il continente africano che non accetterà di buon grado il non vedersi riconoscere anch’esso una maggior rappresentanza nell’organo supremo delle Nazioni Unite. Ma qui il discorso si fa più ampio perché probabilmente la riforma dell’Onu dipenderà anche dalla ragnatela dei nuovi assetti delle geo-mappe internazionali che si stanno formando proprio in questi mesi: da una parte sotto l’egida e l’ispirazione di Washington; dall’altra parte sotto gli stimoli e le promesse di Pechino. Del nuovo affresco del Grande Gioco, alla fine di questo 2023, ne parleremo la prossima puntata.
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