C’è una lettera firmata da Gabriele Vacis, fondatore del Laboratorio Teatro Settimo, direttore della Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino e protagonista di tanto altro teatro italiano contemporaneo che punta a disegnare il futuro del teatro. Un futuro che riparte dal passato, dalle sale prive di platea e da spunti che si rifanno all’età della Commedia dell’Arte o del teatro elisabettiano più che del teatro borghese.

E’ inutile aggiungere note, quando il testo originale dice tutto. Inoltre, potete trovare anche la seconda “puntata” e due interventi nati a valle delle parole di Vacis scritte da Marco Baliani, altra firma importantissima del teatro italiano, sul suo profilo Facebook e Paolo Rossi per Racconti in tempo di peste.


Un’idea per riaprire il Teatro Carignano di Torino e tutti gli altri teatri d’Italia, specialmente quelli storici: aprirli e tenerli aperti tutto il giorno e, venerdì e sabato, anche la notte. Aprirli veramente. Finora i teatri erano chiusi per la maggior parte del tempo, si aprivano al pubblico soltanto per le due o tre ore dello spettacolo. Apriamoli sempre! Gli spettatori potranno entrare ad ogni ora del giorno. Naturalmente non si potrà entrare in più di cento o duecento per volta. Ma l’estensione del tempo d’apertura permetterà d’incrementare le presenze. Gli spettatori troveranno la platea sgombra. Via le poltrone, perché all’inizio, nel settecento, le poltrone non c’erano. Torniamo alle origini. Così si potrà rispettare la distanza tra le persone. Sui palchetti il problema non c’è: uno spettatore per palchetto o gruppi di “congiunti” che possono stare vicini. Si potrebbe addirittura ripristinare la vendita dei palchetti alle famiglie. Prenoti on line, come nei musei e paghi dieci euro. Ti misurano la febbre quando entri e nel foyer si potranno ritirare degli sgabelli pieghevoli per chi vorrà sedersi in platea, alla giusta distanza. Le maschere saranno addestrate alla sanificazione che potrà avvenire periodicamente nell’arco della giornata: i teatri sono già attrezzati per le luci ad ultravioletti che sanificano gli ambienti. Per la gestione di prenotazioni e tutti i servizi si sfrutterà l’esperienza nell’uso della rete che stiamo facendo adesso, in clausura. Si coinvolgeranno le imprese e gli enti locali, per esempio il Politecnico e le aziende sanitarie che potranno fornire algoritmi di gestione e movimentazione, le aziende della moda per l’abbigliamento delle maschere che avranno mansioni più “creative”.

E cos’è che accadrà nei teatri? Io faccio teatro da quando avevo quattordici anni: da cinquant’anni sento ripetere che le prove sono molto più appassionanti dello spettacolo. I maestri del Novecento ci hanno insegnato che quello che c’è dietro alla rappresentazione è prezioso quanto lo spettacolo stesso. E’ l’occasione buona per fare il salto, per realizzare il sogno del Living Theatre e di Grotowski, di Copeau e Paolo Grassi che volevano il teatro come servizio sociale, come la metropolitana e l’acqua potabile. Portiamo in scena tutto: le prove, le letture dei testi, l’allenamento degli attori, l’allestimento delle luci e dei suoni. Nel lavoro quotidiano della scuola per attori del Teatro Stabile di Torino, nel training, nelle lezioni dei maestri c’è tensione, c’è cultura, c’è scoperta comune, c’è tanta bellezza. Smettiamola di tenercela per noi. Da quando lavoro con disabili, studenti, con immigrati, con gente comune, vivo momenti di teatro straordinari. Il teatro, più che creazione di forme è creazione di relazioni tra le persone. Prendiamo tutto il coraggio che abbiamo accumulato in questo isolamento e portiamo al Carignano tutto quello che c’è dietro allo spettacolo, tutti i giorni, per tutto il giorno. E anche certe notti. Questa rivoluzione richiede una grande collaborazione tra gli artisti, i tecnici, gli organizzatori, fino alle maschere, che dovranno ridefinire i propri ruoli, ampliando le loro competenze all’arte, alla pedagogia, alla cura della persona. Il che comporta una redistribuzione radicale di paghe e retribuzioni, più equa. Servirà meno marketing e più complicità tra artisti e spettatori. Gli attori rinunceranno a un po’ di vanità in favore della comprensione. I manager rinunceranno a un po’ della loro sufficienza efficientistica in favore della solidarietà. L’obiettivo sarà la partecipazione comune alla creazione dell’evento teatro. Cogliamo l’occasione per trasformare finalmente i teatri da luoghi esclusivi in spazi d’inclusione. Cogliamo l’occasione per dare un futuro a questo straordinario patrimonio che sono i nostri teatri.

Gabriele Vacis, 28 aprile 2020

Un’idea che poi è andata oltre.

riAprire i teatri / 2
Ringraziare, precisare, immaginare.

Prima di tutto ringraziare.
Grazie alle tantissime persone che continuano a condividere, commentare e criticare il documento “riAprire i teatri”.
Grazie a due maestri che ci hanno incoraggiato con parole bellissime: Eugenio Barba e Giuliano Scabia. Ringrazio loro insieme a tutti quelli che ci hanno mandato e continuano a scriverci buoni consigli.

Secondo: precisare.
L’idea potrà partire quando sarà sano aprire i luoghi pubblici. Non è una sollecitazione ad affrettarne la riapertura. Semmai è un’idea per rendere possibile l’anticipo della riapertura, per aprire in modo nuovo: se aspettiamo che si possa tornare a riempire i teatri rischiamo di tenerli chiusi mesi e mesi. Partiamo con il teatro oltre lo spettacolo, il teatro di cura.

L’idea riguarda il teatro pubblico. A Torino c’è un teatro privato gestito da una gran donna che si chiama Claudia Spoto. Immagino che questa chiusura le procuri grandi difficoltà: queste aziende private vanno aiutate come si aiutano le altre aziende. Anche di più, perché un teatro come il Colosseo non guarda solo al profitto, ma anche alla cultura. Anche il teatro privato genera consapevolezza sociale. Ma io parlo del teatro pubblico, quello pagato con i soldi dei contribuenti, è lì che si possono sperimentare nuovi modelli di convivenza.

Terzo: immaginare.

Come si finanzia tutto questo? Con gli stessi soldi di prima. Ma distribuiti in modo diverso. Garantendo certo la stabilità degli apparati organizzativi ed amministrativi. Ma estendendola anche agli artisti. Una sorta di reddito garantito per attori, tecnici, scrittori…
Prima lavoravamo sempre di più per guadagnare sempre meno. Le tecnologie liberano tempo. Il lavoro di tante persone lo faranno le macchine. Ma la ricchezza continuerà ad essere prodotta. Bisognerà trovare il modo di redistribuirla. E la redistribuzione della ricchezza passa dal riorganizzare il tempo delle persone, dall’inventare occupazioni motivanti, coinvolgenti, gratificanti. I nuovi lavori dovranno gestire l’otium latino, che non è il padre dei vizi, ma ricerca di consapevolezza di sé, degli altri, del tempo, dello spazio. I grandi teatri storici sono spazi ideali dell’otium.
L’arte, la bellezza, il teatro sono rimasti per troppo tempo prigionieri della forma. Liberiamoli nell’inclusione, nell’interazione tra le persone! Mettere in scena tutto quello che c’è dietro e oltre lo spettacolo significa ridefinire il rapporto tra lo spettacolo e il teatro, tra la forma e la relazione tra le persone. Il teatro nasce come pratica di guarigione: il teatro di Epidauro era un reparto dell’ospedale più grande dell’antichità. Il teatro ha, dalle origini, a che fare con la cura della persona. Siamo costretti, temporaneamente, a sospendere lo spettacolo? Approfittiamone per dare spazio al teatro. Cogliamo l’occasione per rendere accessibile il teatro a chi non ci ha mai messo piede. E’ tanta gente! Facciamo scuola nei teatri, naturalmente per fargli vedere Goldoni e Shakespeare, per fargli capire come funzionano Goldoni e Shakespeare. Facciamo vedere a come un grande regista e una grande attrice costruiscono un personaggio o interpretano un testo, uno di fronte all’altro come Marina Abramovic in “The artist is present”. Ma facciamoglielo vedere nel momento in cui nasce. Il teatro è forma nascente. La forma cristallizzata lasciamola a Netflix, che sa cristallizzarla molto meglio.
Ma sia chiaro che non è la soluzione definitiva.
Quando si potrà tornare a riempire i teatri si rimetteranno in scena i grandi spettacoli di tradizione che sono un patrimonio inestimabile. Nel frattempo avremo accumulato l’esperienza del teatro oltre lo spettacolo, che ci avrà insegnato ad usare in modo nuovo e meraviglioso i teatri. E, state certi: spettacoli di tradizione e teatro di cura della persona convivranno in armonia, nutrendosi a vicenda: una forma concreta di sviluppo degli spettatori e di innovazione delle istituzioni.
Il teatro nasce dal rito, dal gioco, dalla narrazione. Riportiamo rito, gioco e narrazione a teatro.

Citazione che ha inviato un’amica: il teatro è una scuola di pianto e di riso, è una tribuna libera da cui gli uomini possono denunciare morali vecchie e equivoche e spiegare le leggi del cuore e del sentimento umano, dice Federico Garcia Lorca, il giorno che non avremo né scene né costumi metteremo in scena il teatro classico con le nostre tute da lavoro.

Gabriele Vacis , 7 maggio 2020

E Marco Baliani ha aggiunto:

È una buona proposta per vari motivi, perché rimette in circolo la possibilità concreta di fare ancora teatro, ma anche perché costringe a reinventarsi un modo di produrre e fruire teatro.
Il mondo di prima non ci sarà più, entreremo in un lungo periodo di stagnazione e recessione economica, è inutile continuare a illudersi su una ripresa una crescita, bisogna smetterla di pensare in quel modo, non serve più, non serve soprattutto a un pianeta sempre più moribondo proprio a causa di questo bulimico modo di produrre e consumare
In teatro questo vuol dire ripensare interamente le modalità produttive, serve un sano gioioso esemplare francescanesimo, lavorare sulla povertà degli allestimenti facendo diventare la “bellezza del poco” il dato del cambiamento, servono spettacoli agili, capaci di vivere senza orpelli, facili da produrre e da far circuitare, che costino poco in termini di preparazione e che siano giusti nella retribuzione degli artisti
Serve un cambiamento paradigmatico totale, è l’occasione per cambiare la mentalità con cui finora si è proceduto. Un teatro sempre aperto presuppone una filiera di idee progettuali che dal teatro prendono le mosse, una cultura teatrale aperta e non chiusa in se stessa che sappia dialogare con tecnologie a basso costo, che oggi già esistono, aprendo lo spazio teatrale al sociale, a far praticare teatro non solo dagli attori.
Aggiungo intanto un’altra proposta, nell’immediato rivolgo un accorato appello agli organizzatori e direttori di festival estivi, affinché non demordano, non abbandonino gli spazi conquistati, riducendo di certo la programmazione, ma continuando ad esserci, perché si può praticare un teatro in spazi all’aperto, con quei gruppi e artisti capaci di concepire un teatro di strada, di piazza, di cortili etc…, esperienze già avvenute negli anni (si pensi a cos’era alle origini il festival di Santarcangelo o quello di Dro).

All’aperto gli spettatori potrebbero facilmente mantenere le distanze di sicurezza. Nel tempo una simile possibilità potrebbe far nascere drammaturgie ad hoc, novelli carri di Tespi, teatri capaci di vivere en plein air.

Ancora: in questo periodo di clausura è inutile continuare a mostrare in video spettacoli già fatti, le forme virtuali vanno bene come pure documentazione di un evento, ma non fanno vibrare i neuroni specchio di cui il teatro ha bisogno, meglio usare questo tempo invece per “allestire” in pensiero e scrittura e prove i prossimi lavori, ma già immaginando una diversa fruizione dello spettacolo. Questo cambierà anche la futura drammaturgia, con esiti che per ora non si possono prefigurare ma certo accadrà nelle forme della creazione un cambiamento radicale. Questi per ora i pensieri e i proponimenti, occorre non fare pause, non disabituare la gente alla meraviglia dell’atto teatrale, far sì che tornare a teatro diventi un valore sociale, un atto eroico di resistenza al dolore e alla paura, una sfida possibile.

Marco Baliani, 1 maggio 2020

Al dibattito si è aggiunto Paolo Rossi, attraverso la pagine di Racconti in tempo di peste chiede più volte: “Siamo sicuri?”. Le sue domande partono dai luoghi del teatro (fuori dal teatro) e poi i tempi (teatri aperti tre ore al giorno). E i modi, anche andando a cercare nel “dormiveglia” tra reale e virtuale, tra carne e streaming. E poi la filiera, i finanziamenti che già non c’erano primi.

Siamo sicuri di voler tornare alla normalità? O che la normalità, quella di prima, non fosse il problema?

Come una specie di bonus track, lascio anche il dialogo in tempo di peste con Eugenio Barba e Julia Varley.

Alessandro Cappai

Giornalista. Insegna giornalismo digitale al master in giornalismo “Giorgio Bocca” all’Università di Torino. È un orgoglioso iscritto dell’Online News Association. È stato speaker al Festival...

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