La tragedia del Covid-19 ci sta facendo perdere il senso delle cose.
Ci altera le priorità.
Monopolizza i nostri pensieri, le nostre attenzioni, il nostro essere.
Lo so che non è un fenomeno che contamina tutti nello stesso modo: ma una gran parte delle persone, mi sembra proprio di sì.
Perché questo incipit?
La riflessione mi è venuta leggendo uno dei tanti quotidiani cartacei che continuo, quasi con accanimento “di resistenza” a comprare, leggere, ritagliare e collezionare.
Sulla stessa pagina, interna alla foliazione e successiva a otto pagine dedicate alla pandemia, c’erano due pezzi, apparentemente scollegati ma intrinsecamente connessi.
La morte di Youssef (Joseph) Ali Kanneh, il bimbo di sei mesi originario della Guinea Conakry, annegato nelle acque del “Nostro” Mediterraneo dopo che la madre (che compie 18 anni proprio in questi giorni) Haiay, sballottata su un gommone di salvataggio che li stava portando nella “terra promessa”, se lo è visto sfuggire dall’abbraccio e finire in mare.
Il secondo pezzo approfondiva le ragioni del rinvio della riforma del trattato di Dublino, punto di partenza per una nuova e più equa politica di Bruxelles sulla gestione dei flussi migratori.
Assorbita dalla nuova emergenza terroristica, la Commissione Europea, guidata nel semestre tedesco dagli uomini della Merkel, ha deciso, su richiesta del Presidente francese Macron, di occuparsi preliminarmente di una possibile riforma e quindi di una nuova strategia per Schengen. Rinviando la modifica del trattato di Dublino al 2021, durante il semestre a presidenza francese.
Due eventi, come dicevo, apparentemente slegati tra di loro.
Uno di cronaca, tragica finché si vuole, ma drammaticamente quotidiana nella disastrosa e disumana politica di gestione dei flussi migratori; l’altra di politica internazionale con la ratifica di un nuovo rinvio per quella che dovrebbe essere la ripartenza di un progetto più equo, più umano ed efficiente nella gestione e redistribuzione dei migranti tra i paesi membri dell’Unione Europea.
I due pezzi sono in realtà tragicamente connessi.
Le nostre classi dirigenti, nazionali ed europee, non percepiscono, o volutamente non vogliono farlo, che soltanto una diversa policy comune, condivisa tra tutti i partner europei, sulla gestione dei flussi migratori – proprio, anche dal punto di vista della sicurezza interna dei singoli stati – può evitare le tragedie del mare (come quella del povero e innocente Youssef), il traffico di esseri umani, l’arricchimento delle mafie che si occupano del business del trasporto clandestino dalle sponde africane della Libia e della Tunisia verso l’Italia ma soprattutto verso l’Europa.
E così mentre siamo tutti qui … per un giorno al massimo!, a piangere, commuoverci, partecipare alla retorica dell’ingiustizia della morte di quel piccolo bambino innocente ed ignaro di tutto, che, stretto al petto della mamma neanche maggiorenne, per un improvviso ed inaspettato movimento della barca finisce in mare ed annega (tra l’altro neanche subito ma cinque ore dopo il suo recupero, per una palese inefficienza nei soccorsi), mentre ci ritroviamo tutti a chiedere, in modo ipocrita, Scusa, i nostri governanti derubricano il problema e lo rinviano al prossimo anno, lasciando immutata la situazione, aperta quindi a nuove e certe tragedie nelle prossime settimane.
Cosa fare?
Da un punto di vista politico, inteso come partecipazione alla vita e alle decisioni della nostra comunità di appartenenza, credo sia necessario far arrivare a Bruxelles una protesta non formale ma sostanziale.
Un grido di dolore ma anche di allarme sulla follia di non occuparsi subito e con efficacia della riforma del trattato di Dublino con una nuova policy di controllo, identificazione e redistribuzione dei migranti, al di là del fatto che siano politici o economici.
Basta con queste ipocrite differenziazioni e questi alibi da strapazzo!
Da un punto di vista umano e antropologico, a mio parere, dovremmo fermarci un attimo a riflettere sul come siamo diventati: cinici, egoisti, chiusi nei nostri incubi da contagio o comunque dalla necessità di modificare la nostra vita a causa della pandemia.
Sembriamo automi che si muovono in gregge, senza meta, strapazzati dall’ultima fake news che la Rete ci ha propinato o angosciati per il futuro del nostro “più ristretto” cerchio di affetti.
Degli “Altri” non ci interessa sostanzialmente nulla.
Una pennellata di ipocrite dichiarazioni di scuse, di cordoglio formale, della durata di qualche minuto e poi, velocemente a rioccuparci di “Noi” del nostro laghetto di interessi egoistici e per lo più miopi.
Luca Bottura, su La Repubblica, è stato tragicamente brillante nel rappresentare questa nostra deriva. “Caro Joseph –ha scritto – questa è la mia personale lettera di scuse. Anzi: di richiesta di perdono. Parlo a nome mio e di nessun altro, perché sarebbe troppo lungo e faticoso intestarsi la curiosa dicotomia per cui metà del mondo ha il problema di come acquistare un plasma a 600 pollici e l’altra metà di come sfuggire a fame, guerre, cambiamenti climatici. Con quelli del plasma che intanto alzano il ditino: “e no, caro mio. O scappi dalle bombe o niente. Qualcuno ha visto il telecomando del Dolby Surround?”.
Siete rimasti infastiditi dalla lettura di questa fotografia?
Lo spero!
Anzi, ve lo auguro.
Dobbiamo reagire a questa perdita di senso della vita.
Scrolliamoci di dosso rabbie, rancori, malmostose accuse sempre dirette agli Altri.
Mai figlie di una reale e corretta autoanalisi sulle nostre colpe… pro-quota naturalmente.
Non arrendiamoci a questa deriva, come ci invita spesso a fare l’ultra centenario fondatore di questa rivista, Bruno Segre.
Alziamo la testa, convinciamoci che non da soli, ma con gli Altri, ne verremo fuori.
Che il valore di una vita umana, soprattutto quando parliamo di bambini, non ha prezzo.
Dipende da Noi uscire da questa soffocante e diseducativa bolla che ci sta distruggendo.
Diamo segnali diversi.
Ciascuno iniziando proprio dalla sua comunità di appartenenza.