È un argomento ostico. Molto tecnico e con barriere di accesso tali da pregiudicare la comprensione di noi cittadini “normali”, non addetti ai lavori. Eppure rappresenta una delle questioni fondamentali della nostra vita, sia nel periodo lavorativo (quanto ci costa… non poco!) sia, soprattutto, quando smettiamo di lavorare e andiamo in pensione. Da decenni si discute su come migliorare il nostro sistema pensionistico. Quale sia il metodo migliore per bilanciare i prelievi ai lavoratori con le erogazioni ai beneficiari pensionati. Quasi tutti i governi si sono cimentati nella colossale impresa di riformare il sistema, con risultati insoddisfacenti, anzi, in certi casi, fallimentari. Oggi abbiamo l’opportunità di capirci un po’ di più e un po’ meglio. Infatti, avendo il dovere di versare i contributi abbiamo il sacrosanto diritto di essere informati correttamente e in modo comprensibile sullo stato dell’arte delle nostre pensioni.
Con una narrazione divulgativa e finalmente comprensibile, Sergio Rizzo, giornalista e scrittore, grande fustigatore dei numerosi vizi italiani, ha dato alle stampe il volume “Il Titanic delle pensioni” (Solferino) aiutandoci a entrare in questa spinosa e complessa materia. Senza mezzi termini e con parole chiare e semplici, Rizzo ci prende per mano e ci accompagna proprio sulla “tolda del Titanic” poco prima dello schianto contro il famoso e maledetto iceberg. “Il sistema pensionistico italiano è una bomba ad orologeria difficile da disinnescare”, dice a chiare lettere l’autore. Denatalità e vincoli alla immigrazione stanno aumentando il deficit strutturale di un sistema che fa acqua da tutte le parti. Le entrate decrescenti non coprono le uscite crescenti in un Paese che si sta riempendo di vecchi e di anziani. Allacciatevi dunque le cinture ed entriamo, seppur in sintesi, nel contenuto del saggio di Rizzo che ci riguarda tutti e che, soprattutto, scatenerà incubi ed angosce per chi sta vivendo la stagione della vita dedicata al lavoro attivo in attesa della sospirata pensione che potrebbe anche… non arrivare! Rizzo fa una premessa storica: come si è via via sviluppato il modello pensionistico italiano.
La genesi storica del sistema
Fino al 1945, il sistema era a capitalizzazione e cioè i contributi venivano versati in un fondo e poi investiti nel mercato dei capitali. Il governo Bonomi, durante il periodo bellico, il 1° marzo 1945 promulgò un decreto luogotenenziale che apriva la stagione della ripartizione: in altre parole le prestazioni cominciavano ad essere pagate anche con i contributi versati da chi era al lavoro. Con questo sistema i contributi non vengono accantonati e investiti nel mercato dei capitali bensì trasferiti dalla popolazione “giovane” a quella “anziana”, che generalmente ha una propensione al risparmio inferiore. L’effetto di un sistema a ripartizione è quello di trasferire risorse “da chi risparmia tanto” a “chi risparmia meno”, riducendo quindi il risparmio complessivo dell’economia. Durante il boom economico degli anni ‘60, la forte immigrazione interna rivoluzionò la composizione e le abitudini del Paese, concentrando la produzione industriale nella ricca pianura padana. Soltanto nel 1975 si evidenziarono i primi segnali del rallentamento del nostro PIL con le inevitabili conseguenze sull’occupazione. Il sistema pensionistico a ripartizione non creava però alcun problema in un Paese con tanti lavoratori in piena attività e pochi pensionati.
La previdenza, in quegli anni, divenne anzi un importante strumento di welfare che i vari governi utilizzarono per consolidare il loro consenso partitico. Fu il governo Rumor nel 1969 che decretò definitivamente che il sistema pensionistico italiano sarebbe stato quello a ripartizione. Nel 1973, il Governo Andreotti-Malagodi stressò ulteriormente il sistema introducendo le cosiddette baby-pensioni che consentivano di ritirarsi dal mondo del lavoro anche con meno di 35 anni. Fu il segnale dell’inizio di un vero e proprio “assalto alla diligenza” in cui ciascuna corporazione italiana tentò di accaparrarsi pezzi del welfare.
A poco a poco il deficit previdenziale assunse proporzioni tali da imporre alla politica il ridisegno del sistema. La riforma Dini del 1995 trasformò gradualmente il sistema a ripartizione nel sistema contributivo con assegni pensionistici commisurati all’entità dei versamenti effettuati dal singolo lavoratore. Anche la riforma Fornero del 2012 come quella di Dini di quasi vent’anni prima fu introdotta dopo una crisi finanziaria, quando cioè lo Stato italiano fu obbligato a farsi “meglio” i conti sullo stato disastroso delle finanze pubbliche e della previdenza. Dalla riforma Fornero in avanti il dibattito sul come assestare i disastrati conti delle nostre pensioni è continuato senza sosta, non approdando però a nessuna soluzione virtuosa condivisa. Oggi, scrive Rizzo, bisogna avere il coraggio di dire tutta la verità, senza nascondere la testa sotto la sabbia e continuando a rinviare quella verifica statistico-attuariale sulla sostenibilità del sistema pensionistico che per legge dovrebbe essere fatta ogni tre anni e che in realtà si è sempre preferito rinviare, temendone gli effetti soprattutto mediatici e psicologici nel Paese.
La responsabilità di questo fallimento
Di chi è la responsabilità di questo colossale disastro? Secondo Rizzo si è trattato di un concorso di colpa generalizzato. In materia pensionistica, sia a livello statale sia a livello regionale, soprattutto, l’uso di “leggine” ad hoc, di provvedimenti su misura per pochi privilegiati, di emendamenti dell’ultima ora, è stato così ricorrente dall’essere diventato una pratica abituale con tutto il Paese che girava lo sguardo altrove. Ognuno di noi ha le sue colpe, dirette o indirette sullo stato fallimentare della nostra previdenza.
Un esempio surreale: la gestione del patrimonio immobiliare
Ci sono 7.500 appartamenti, più i 2.500 locali commerciali, garage, cantine e terreni che costituiscono il patrimonio immobiliare dell’INPS. Un patrimonio che, stante le dichiarazioni dei vertici dell’Istituto previdenziale, nessuno riesce a vendere: le aste vanno regolarmente deserte e in tal modo il patrimonio non si riesce ad alienare. La circostanza appare davvero misteriosa anche perché dipende dal livello dei prezzi, ma prima o poi un acquirente lo si trova sempre. Invece, per quanto riguarda il patrimonio dell’INPS, sembrerebbe impossibile trovare una soluzione.
Ma c’è di più: “Dal 2012 – scrive Sergio Rizzo – una norma ha imposto all’INPS la dismissione totale del patrimonio da reddito, quindi di tutte le abitazioni. La conseguenza è che gli appartamenti che si svuotano non possano essere riaffittati e neppure si possono rinnovare gli affitti scaduti… Dei 7.500 appartamenti ancora posseduti dall’INPS, quelli sfitti sono circa 2.300. Non producono alcun reddito, ma costano un sacco di soldi di manutenzione e anche di tasse. Siccome non può essere riaffittato, ogni appartamento che si libera va anche murato. Avete capito bene: murato. Murata la porta di ingresso e murate anche le finestre. È la precauzione minima, anche se spesso nemmeno sufficiente, per evitare che la casa venga occupata abusivamente… Le case dell’INPS in mano agli abusivi sono 1.900. Moltissime a Roma, ma sgombrarle è impossibile”.
In sintesi, il 56% del patrimonio abitativo ancora posseduto dall’INPS non produce alcun reddito. Anzi, come scrive Rizzo, genera perdite rilevanti. Gli alloggi sfitti e non riaffittabili costano ogni anno all’Istituto 112 milioni di euro. Metà di questa cifra, oltre 50 milioni, se ne va per gli appartamenti vuoti e occupati dagli abusivi. Il rimanente 44% del patrimonio, vale a dire circa 3.300 appartamenti, produce entrate per 43 milioni all’anno. “Con il risultato – conclude Rizzo – che sul patrimonio abitativo residuato l’INPS perde una sessantina di milioni l’anno!”.
Conclusioni
Il sistema pensionistico in un Paese sempre più anziano non regge. Solo con una forte immissione di immigrati regolari si potrebbe allargare la platea contributiva e innalzare il tasso di natalità, come hanno fatto con esiti positivi Germania e Svezia. L’INPS vanta crediti contributivi superiori ai 100 miliardi e si è arrivati anche al punto di “rottamarli” pur di chiudere le posizioni e incassare una minima percentuale del valore facciale del credito. Se a ciò aggiungiamo le truffe, lo scandalo dei falsi invalidi e l’enorme contenzioso dove l’INPS soccombe nel 50% dei casi, possiamo avere un quadro completo del disastro con cui stiamo convivendo.
“Apparentemente – ha scritto di recente Ferruccio De Bortoli sul Corriere della Sera – il quadro appare senza soluzione di fronte a un lavoro che cambia e spesso è intermittente, precario. L’evasione fiscale contributiva non è più tollerabile, basterebbe non assecondarla per avere risultati apprezzabili. Separare l’assistenza dalla previdenza farebbe emergere costi collettivi ed individuali oggi invisibili o rimossi. Rizzo è favorevole a un sistema a capitalizzazione non solo per il secondo pilastro, ma anche per il primo. Una marcia indietro di ottant’anni. Ma soprattutto un bagno di umiltà in un Paese che si illude di poter vivere ancora a lungo al di sopra delle proprie possibilità”.