Le prime due parti di questo lavoro hanno esaminato come la pressione migratoria, che ha dimensioni mai precedentemente conosciute, sia la principale sfida della nostra epoca e come, se da un lato abbiamo bisogno di aprirci agli immigrati, dall’altro una politica di accoglienza totale e acritica è un suicidio. Il tema è troppo importante per poter essere aprioristicamente risolto sulla base di pregiudizi ideologici.
In questa sede vorrei brevemente esaminare le ragioni “pro immigrazione” cercando di distinguere i “falsi miti” dalle ragioni di sostanza.
Il primo falso mito è l’equazione: accoglienza = solidarietà. Se la solidarietà può essere considerata un dovere morale, l’accoglienza è solo una delle tante forme in cui può esprimersi la solidarietà. In presenza di risorse definite, come per definizione sono sempre quelle economiche, l’accoglienza è una delle forme meno efficienti di solidarietà. Mi sono occupato di una iniziativa a favore di bambini orfani in Uganda: a parità di impegno economico, si mantengono oltre dieci persone a casa propria al costo di un immigrato in Italia. Altro esempio: ne “La notte della sinistra”, Rampini segnala che oltre la metà dei medici del Malawi lavorano a Londra. Viene immediato pensare che con un importo ragionevole potrebbe essere integrato il loro stipendio per incentivarli rimanere nel loro paese, con enorme beneficio per la popolazione locale.
“Aiutarli a casa loro” è molto più efficiente che accoglierli (fatti salvi coloro che hanno diritto all’asilo, ma che non superano il 4% degli arrivi) ma non è uno strumento per bloccare l’immigrazione. Roberto Perotti (su “La Repubblica” del 4 luglio) presenta argomentazioni convincenti. Ma basterebbe riflettere sul fatto che i paesi da cui provengono gli immigrati in Europa stanno tutti relativamente meglio (il loro PIL pro-capite è cresciuto molto più di quello europeo) rispetto a venti anni fa. “Aiutarli a casa loro” è un dovere morale, ma non un’alternativa al presidio delle frontiere e ai rimpatri.
Gli immigrati contribuiscono positivamente al deficit del sistema pensionistico. Questa è addirittura un’assurdità: i calcoli pensionistici si fanno sui flussi attualizzati di pagamenti ed esborsi durante l’intera vita di un individuo. Nel nostro sistema (contributivo) nessuno riceve meno di quanto versato, molti soggetti di più (fa eccezione chi rientra nel proprio paese senza aver raggiunto i minimi pensionistici, ma non sono coloro che sono venuti per rimanere). Limitare il calcolo ai flussi positivi del periodo lavorativo dei giovani è metodologicamente scorretto. Se poi aggiungiamo il resto della spesa sociale (istruzione, sanità, case popolari, aiuti alle famiglie ecc.) il bilancio sui servizi sociali è fortemente negativo. Al conto vanno poi aggiunti anche alcuni costi indotti: dalle rimesse all’estero degli immigrati (una componente negativa del PIL) al “dumping sociale” (se nelle grandi città è crollata, ad esempio, la tariffa per un taglio di capelli, significa che italiani che prima potevano “tirare avanti” come barbieri, oggi costano allo Stato). Gli immigrati costano, e molto.
Quanto al fatto che “gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare”, siamo certi che sia ancora valido, dopo che vent’anni di crisi ha quintuplicato il numero di famiglie italiane sotto la fascia di povertà? Nei cantieri edili del Lussemburgo abbonda la manodopera italiana: perché mai fanno lì lavori che “non vogliono più fare” a casa loro? I salari sono evidentemente più alti, anche al netto del maggior costo della vita e del disagio di aver abbandonato la propria casa. Qualcuno ha calcolato, per seguire questo esempio, se un taglio del cuneo fiscale nell’edilizia, aumentando gli stipendi netti, non farebbe quadrare i conti? E, per fare un altro esempio, se le badanti avessero un contratto regolare e orari di lavoro ragionevoli, continuerebbe a essere una professione che “nessuno vuole più fare”? Certo bisognerebbe pensare che il costo differenziale debba essere coperto da una maggiore spesa sociale a sostegno di taluni anziani a basso reddito. Come finanziare quello che propongo in questi due esempi? Semplice; si autofinanzia, almeno in larga parte: riducendo la disoccupazione italiana si diminuisce il costo dello stato sociale per i disoccupati.
Riassumendo: non confondiamo i temi etici con quelli economici. Una cosa è la solidarietà, moralmente doverosa, altra cosa è la convenienza economica. Quanto alla prima, l’aiutare le persone a casa loro è molto più efficiente che accoglierle; quanto alla seconda, l’immigrazione ha un saldo netto economicamente negativo.
Quindi? Abbiamo raggiunto la conclusione? No: ci stiamo dimenticando l’argomento “forte” pro-immigrazione. A mio giudizio talmente “forte” da far passare in secondo piano tutti gli altri pro o contro: la differenza di pressione demografica che si sta creando nel mondo.
Se l’”accogliamo chiunque si presenti” è assurda, nemmeno la politica di “costruiamo un muro e teniamoli fuori” è sufficiente: le più inespugnabili fortificazioni nella storia sono crollate quando non vi fu più un numero sufficiente di difensori a presidiarle. In un’Europa anagraficamente sempre più vecchia, questa sta per essere la nostra situazione: dobbiamo accogliere, anche nel nostro interesse, coloro che saranno i nostri figli ed eredi. Smettiamola di vedere l’immigrazione come un bene o un male: è un fenomeno di dimensioni enormi, ineluttabile, da gestire con programmazione e lungimiranza.
Non potendo accogliere tutti, dobbiamo operare delle scelte su chi arriva: accogliere, in un numero ragionevole, coloro che intendono diventare “europei” e respingere coloro che vogliono vivere in un modello culturale contrapposto. Sulla linea di demarcazione fra un, auspicato, melting-pot e un multiculturalismo, disastroso perché conflittuale, si gioca il nostro futuro. Non c’è niente di razzista in questo, solo buon senso.
Roberto Timo